Tutto questo, stavolta non si trova in un teatro, in un cinema o chissà dove possa essere messa in scena una pièce di Shakespeare o di Molière, si trova, o meglio, si trovava, in uno degli stadi più iconici d’Inghilterra e d’Europa. Probabilmente il più indimenticabile, uno stadio che in un modo o nell’altro resterà per sempre vivo, anche se non esiste più.
Quattro blocchi nettamente distanziati tra loro, i seggiolini rossi intervallati dal bianco delle sagome dello stemma dei Gunners e dei vari sponsor tecnici e ufficiali che si sono susseguiti nei decenni, la gradinata con al centro quell’orologio dal quadrante chiaro, il tabellone posizionato sull’angolo, pensando anche ad uno solo di questi dettagli ci tornerà in mente qualche ricordo: una partita, una rete, brevi momenti che sono rimasti nel cuore e nella testa delle persone, di coloro che si sono seduti su quei seggiolini rossi, ma anche di chi le partite in quello stadio le ha viste in televisione.
7 maggio 2006, ad Highbury vanno in campo l’Arsenal e il Wigan Athletic, è l’ultima giornata di quel campionato, il pomeriggio che per l’ultima volta vedrà qualcuno scendere su quel prato con la divisa di una squadra di Premier League. Il fatto è che, proprio come nelle opere teatrali interpretate da grandi attori, l’ultimo atto, l’ultima scena, non potrà mai essere banale. È quasi superfluo, ricordando quel pomeriggio, parlare della situazione di classifica e degli obiettivi delle due squadre in campo. Certo, i Gunners devono portare a casa i tre punti per esser sicuri di qualificarsi alla Champions League dell’anno successivo, ma l’atmosfera nel nord di Londra suggerisce che le attenzioni e le emozioni dei 38.359 spettatori sono rivolte a qualcos’altro. La partita è bellissima, sembra quasi una gara valida per una competizione che fa storia a sé, sembra che non esista un campionato, che quella sia l’unica partita di calcio al mondo che si gioca quel giorno, e questo è ovviamente perché in Inghilterra gli stadi si cambiano, le squadre si spostano, ma soprattutto, perché gli stadi che vengono abbandonati si demoliscono e, di lì a poco, le ruspe si sarebbero sfogate proprio sull’Arsenal Stadium.
Il Wigan arriva a Highbury con la spensieratezza di una provinciale che fa divertire, con il suo inaspettato decimo posto. Questi piccoli biancoazzurri hanno reso soddisfatti i propri tifosi per tutta la stagione salvandosi con largo anticipo e, se andassimo a domandare a qualsiasi giocatore di quella squadra, sicuramente ci direbbe che si sentiva onorato e privilegiato ad avere la possibilità di essere lì, a Highbury, per giocare l’ultima partita di questo tempio. E questo si vede, lo si vede da come gli undici di Paul Jewell entrano in campo, giocano spensierati ma allo stesso tempo motivati a fare la loro parte in questo ultimo atto per entrare nella storia di questo impianto. L’emozione è tanta in quel pomeriggio di primavera dal sole malaticcio, il pubblico avvolge il verdissimo prato e lo contorna alla perfezione con colori che salvo qualche piccola macchia si alternano, neanche a dirlo, tra il bianco e il rosso. Arriva l’ottavo minuto di gioco e un calcio d’angolo battuto dal compianto José Antonio Reyes, una respinta, la palla buttata nuovamente dentro che si blocca in area dopo un rimpallo, poi la scarpetta bianca di Robert Pires la spinge dentro, è 1-0. Esplode Highbury, quasi a voler sperare che possa esserci ancora spazio per quelle emozioni, ma si sa, gli inglesi sono precisi e rispettano le parole date, non cambierà la decisione di abbattere l’impianto. Non cambierà neanche due minuti più tardi, quando una zampata di Paul Scharner pareggia il conto raccogliendo il cross da una punizione laterale. Il match continua e i calciatori dell’Arsenal sono più tesi di quelli del Wigan, è troppa la voglia di far bene in quella partita, è troppo importante e il pensiero principale non è certo la classifica. Al 33esimo David Thompson calcia da trenta metri, non ci si spiega come sia posizionato in porta Jens Lehmann. Un paio di rimbalzi e la palla rotola in rete insieme agli accidenti che probabilmente si è autoinflitto il portiere dei Gunners. Ma è qui che la scena se la prende il personaggio che anche se non volesse esserlo sarebbe comunque il protagonista, lo è sempre stato con la maglia dell’Arsenal e lo sarà anche in quel pomeriggio così particolare. Al minuto 35 Titì Henry riceve un pallone filtrante di Pires e fa la cosa più semplice, perché in quel momento va fatta così, apre il piatto col portiere in uscita e accarezza l’angolino. Il parziale è nuovamente in parità e Highbury grida di nuovo. Il secondo tempo è ancora suo, soprattutto dopo la follia di Thompson, il quale (in una gara in cui aveva già confezionato gol e assist) tenta un improbabile retropassaggio ma non vede che il numero 14 in quella maglia bordeaux è lì in agguato. La frittata è fatta, Titì intercetta, salta il portiere e porta la palla in rete. Rimonta completata. Henry esulta, come ha fatto centinaia di volte, correndo al piccolo trotto con le braccia aperte verso le gradinate, a guardare la sua espressione e i suoi occhi scuri, però, si capisce come quella doppietta, già degna di nota, nell’ultima partita in quello stadio, per colui che si può definire il più importante e rappresentativo giocatore dell’Arsenal degli ultimi cinquant’anni, non sia abbastanza, è come se dovesse accadere ancora qualcosa. E quel qualcosa accade, come se fosse atteso. Freddy Ljungberg si infila funambolicamente in area su un pallone alto e viene steso, l’arbitro fischia e indica il dischetto. Henry, come vede cadere il suo compagno svedese, si incammina con il suo consueto passo calmo verso il punto di battuta, non guarda neanche la palla, gli arriva tra le mani non si sa come, è tempo di rendere ancora più significativo un pomeriggio che lo è già di suo.
Il penalty è trasformato, destro incrociato e portiere che va dall’altra parte. Subito dopo, il momento più commovente del pomeriggio e forse della storia di Highbury: Henry fa un passo in avanti, si lascia andare giù e si accascia sulle ginocchia, come se dovesse pregare, poi abbassa lentamente la testa e bacia il prato, quel verde prato che poche settimane più tardi sarebbe stato ricoperto dalle macerie degli spalti frantumati dalle ruspe, il prato che aveva ospitato la storia di un club glorioso e leggendario, che aveva visto gli Invincibili trionfare come nessuno mai aveva fatto, una squadra che avrebbe potuto anche sognare di più, che stava sognando, perché pochi giorni dopo sarebbe volata a Parigi per giocarsi la prima finale di Coppa dei Campioni della sua storia, finale che l’Arsenal perderà.
E forse Highbury in quell’ultimo pomeriggio del 2006 rappresenta, oltre che la fine di uno stadio, di un quartier generale, di un caratteristico modo di vivere il calcio in Regno Unito, anche il viale del tramonto di una squadra, colei che ha incantato nelle ultime stagioni a Highbury ma che piano piano sta lentamente perdendo i pezzi. I Gunners avevano visto partire, nell’estate del 2005, il proprio gigantesco capitano, Patrick Vieira, accasatosi alla Juventus; per giocatori come Sol Campbell e Robert Pires, due grandissimi campioni, il tempo non scorreva all’indietro; Dennis Bergkamp chiuderà la sua gloriosa carriera alla fine di quella stagione, lo farà insieme al suo Highbury; lo stesso Titì Henry, che giocherà ancora un anno nell’Arsenal nel nuovissimo Emirates Stadium da capitano, poi andrà a vincere tutto in Catalogna con la maglia blaugrana.
Highbury e quel 7 maggio 2006 sono il finale, romantico e amaro, della pièce a tinte biancorosse sotto il rumore dei cannoni. Gli attori, i registi, di cui l’ultimo è stato quell’Arsène Wenger che decretò che allo stadio si doveva venire per vedere la squadra vincere e divertirsi allo stesso tempo, le comparse, gli spettatori, hanno visto calare per l’ultima volta il sipario su quel palcoscenico, sul palcoscenico di Highbury e, inevitabilmente, su un pezzo di Arsenal e di vita da Gunners.