“Un gallastrone che canta fuori orario alle prime stelle, andato oltre Cartesio (penso dunque sogno)”, si descriveva così, anni fa, in una prefazione a Jorge Valdano. Gianni Mura è il gioco che dalle strade del ciclismo e dai campi di pallone arriva alle pagine. Etica ed estetica che trovano forma nella parola, senza perdere le radici di quello che, incontrando i suoi occhi, gli ha dato stupore. La forza della sua scrittura viene dall’esattezza del suo sguardo, che diventa credibilità del racconto. È l’anomalia che alimenta la speranza, tenuta da una leggerezza che dopo 30 Tour de France gli fa già pensare a quello dell’anno prossimo.
Ma dove andava in vacanza Mura da piccolo?
«In genere su spiagge dell’Adriatico a basso costo, mi ricordo Bellaria e Roseto degli Abruzzi. Un anno sono anche andato nelle colonie, a Jesolo, ma non ho un buon ricordo perché c’erano i letti a castello e io ero in quello su, e la seconda sera sono piombato a terra».
Mura dalle suore?
«Sì, e bisognava dire le preghiere, comunque dopo essere caduto, mi era venuto un bernoccolo come un uovo di piccione, e mi sono fatto venire a prendere».
E quelle dopo?
«L’estate erano due settimane al mare, non di più. Non eravamo una famiglia povera ma nemmeno ricca, lavorava solo mio padre: faceva il carabiniere. Gli altri periodi, mi ricordo grandi partite a calcio con gli altri bambini nei prati, o una cosa che mi piaceva molto: andare a vedere i vecchi che giocavano a bocce. Una volta c’erano in tutti i paesi i campi da bocce, a me sembravano oasi di civiltà, quindi la prima volta che mi han detto: Marchi i punti; mi sono sentito importante».
E la prima vacanza da solo?
«Erano vacanze di studio, in secondo liceo, mi avevano detto che il francese migliore si parlava a Tours in Turenna e sono andato lì 20 giorni. Era la prima volta che uscivo da solo, mi sono innamorato mediamente sette volte al giorno. Ho offerto cene purtroppo senza esiti erotici, e i soldi per tornare me li ha prestati un frate di Avellino, che era lì anche lui a fare corsi di francese, non ho indagato perché».
La Francia era già entrata nella sua vita. Prima con la scuola poi con la musica, e si sente in quello che scrive.
«Allora non lo sapevo, però, mi appassionavo a queste canzoni non pensando che un giorno avrei fatto il giro di Francia. Fino a quando mi sono iscritto all’università ho sempre pensato che avrei insegnato in qualche media della provincia di Milano, italiano o francese, finché non è arrivata la chiamata de “La Gazzetta dello Sport”».
Quando capisce che non lascerà più Francia e ciclismo?
«Il primo giro d’Italia ’65, e lì capisco che è un mestiere che mi piace, racconto delle cose vive, il ciclismo offre più spunti degli altri sport, poi dopo due anni ho fatto il Tour, molto bello e molto tragico, è quello dove muore Simpson. Col Tour mi si è aperta la Francia, anno dopo anno ho continuato a scoprirla».
Il Tour è l’estate per lei?
«Sì, è la vacanza, un mese che gli dedico non avendo il pallone tra le palle. Ritengo che sia ancora un buon allenamento di scrittura».
E col Tour finisce l’estate o no?
«No. Sono capace di trascinare l’estate anche fino ad ottobre. Che poi settembre vuol dire Ischia. Per ora il Tour batte Ischia 30 a 21, come stagioni».
La prima volta a Ischia? E poi perché è tornato?
«Ho un ricordo abbastanza lontano perché mio padre faceva i fanghi lì. Ricordo di una mareggiata alla spiaggia dei Maronti, prima di una grande magnata di frittura di pesce che non finiva più e poi l’allontanamento dal mare perché c’erano dei cavalloni che avanzavano. In tempi recenti la scelta nasce così: mia moglie è debole di gola, l’aria di Milano le fa venire la tonsillite. Il nostro medico dice il posto numero uno per curarsi è Tabiano Terme, ma dopo tre giorni che era lì mi dice: Vieni a prendermi o mi suicido. Allora chiedo al medico: Ma il posto numero due? E quello dice: Ischia. E io gli rispondo: Ma vaffanculo, dillo prima».
A furia di andarci, Ischia è diventato un libro.
«La prego di notare che ho aspettato di compiere sessant’anni prima di pubblicare qualunque cosa. Il primo l’ho ambientato al Tour. Poi mi sono reso conto che o fai delle cose di fantascienza o se lo ambienti in un posto lo devi conoscere: mi sono fatto un esame di coscienza, Milano la conosco ma ci sono 30 giallisti, e allora Ischia».
Se le chiedessi una poesia che le ricorda l’estate?
«La posso recitare, non mi ricordo come comincia ma: “Dio, quanta stelle ‘n’cielo! / Che luna! / E c’aria doce! / Quanto ‘na bella voce / Vurria sentì cantà! / Ma solitario e lento / More ‘o mutivo antico; / se fa cchiù cupo o vico / dint’a all’oscurità”. Quindi Di Giacomo o Alfonso Gatto che per me è profondamente estivo».
E il suo vino dell’estate?
«Rosso e mosso, se sono in Campania è Gragnano o Lettere, se sono in Emilia è Gutturnio perché di Lambrusco buono ce ne è poco, e se sono in Lombardia è Bonarda».
E il cibo?
«In certe zone della Francia ho mangiato delle albicocche da urlo: fantastiche, grosse, profumate, succose, quelle che mangiavo anche stando in Lombardia 40 anni fa, solo che qui a Milano arrivano solo albicocche che sanno di patate».
Come i peperoni di Carlo Petrini.
«Sì. Io non trovo più quelle pesche che sembravano piccoline le “spaccarole” che dividevi in due solo girando un polso e sembrava avessero le lentiggini, erano pesche bianche picchiettate di rosso che in genere si trovavano anche nelle vigne. Non le ho più viste. È evidente che sulla frutta e sulla verdura, abbiamo barattato il bello col buono».
Una estate diversa dove bello e buono convivevano?
«Ho in mente grandi estati lavorate. Ma nel ’72 sono andato in Sardegna dopo essermi sposato, avevo l’obbligo di far conoscere la moglie ai parenti, tre settimane, con la mia macchina, una cinquecento blu. A me piace molto la Sardegna interna, quella lontana dal mare».
Le sue cinque canzoni dell’estate?
«1)“Era d’estate”, Sergio Endrigo. 2) “Hotel Supramonte”, Fabrizio De André. 3) “La Madonna delle conchiglie”, Vinicio Capossela. 4) “Una giornata a mare”, Paolo Conte. 5) “Sapore di Sale”, Gino Paoli».
Un posto dove è felice?
«Leggendo il giornale su una panchina ai Jardin du Luxembourg a Parigi o anche a Place des Vosges sempre su una panchina».
Un viaggio speciale e uno mancato?
«Mi sarebbe piaciuto visitare la Patagonia. Un viaggio bello in Turchia, anni fa, tagliando tutta l’Anatolia e arrivando ad Ankara, dove c’è il più bel museo visto: quello delle civiltà anatoliche. Poi ci metto un posto modaiolo: le Seychelles e Bird Island dove ci sono migliaia di uccelli che si riproducono e un albergo con dieci camere».
Il viaggio da fare?
«Mi è venuto il sospetto di non conoscere ancora abbastanza l’Italia. E l’ultima volta questo sospetto l’ho avuto proprio al Sud. Se fossi più giovane mi piacerebbe fare un giro d’Italia, adesso sconsigliato da peso e pressione, una cosa tipo Rumiz ma più incentrata sulla tavola».
Uscito su: “Il Mattino” e “Mexicanjournalist”