Andrei Arshavin, l’ultimo diamante grezzo di San Pietroburgo

8 ' di letturaÈ una mattinata dal cielo terso. Nelle fredde strade di Leningrado un bimbo vivace si divincola dalla presa della madre e, senza neanche accorgersene, finisce nel bel mezzo della carreggiata, là dove Vaz e Moskvich sfrecciano a tutta velocità. Il tonfo sordo, un volo di dieci metri, l’urlo straziante di Tatiana.
Sembra il triste preludio di una tragedia; quel giorno però il sole è fin troppo splendente, madre natura non si arrende al caso e protegge il ciclo della vita. Il bimbo si salverà, davanti a sé lo attende una vita fuori dall’ordinario.

Quel bambino, salvo per miracolo, si chiama Andrei Arshavin, uno degli ultimi diamanti grezzi provenienti dalla madre Russia.

Il turbolento divorzio dei genitori costringe il giovane Andrei a un’adolescenza difficile, trascorsa nel fatiscente appartamento di proprietà della madre. Il padre Sergey, poco prima di essere tragicamente stroncato da un infarto, convince lo staff tecnico dello Zenit a visionare il figlio. Un simile concentrato di qualità è merce introvabile nel panorama calcistico russo, gli osservatori lo sanno eccome, per questo ingaggiano il promettente atleta senza il benché minimo indugio.

Corre l’anno 1999, ha inizio un sodalizio lungo quasi 10 anni che legherà Arshavin alla capitale dell’impero zarista. Approdato sulle sponde del Neva, come spesso accade per svezzare i giovani rampanti, Andrei viene parcheggiato alla Smena (lo Zenit-2), allora militante nella seconda divisione russa. La permanenza nella serie cadetta dura appena un anno: Arshavin si dimostra palesemente una spanna sopra tutti, è un folletto diabolico e irriverente che fa ammattire le retroguardie avversarie, un giocatore dalle capacità tecniche soverchianti rispetto al livello medio della categoria. Così, già nel 2000, il coach Morozov decide di lanciarlo nel calcio dei grandi.

Con il prepotente ingresso nel mondo del calcio da parte di Gazprom anche San Pietroburgo viene sommersa da una pioggia di rubli. Un numero crescente di giocatori importanti inizia a vestire la casacca dello Zenit, senza però riuscire ad esprimere a pieno il loro potenziale. Quasi tutti, meno che uno. Arshavin in quegli anni illumina la vecchia capitale con passaggi visionari e uno spiccato senso del gol. La vita non gli ha fatto sconti, anzi, spesso lo ha colpito duro. Lui, dal canto suo, ha sempre incassato i colpi, senza mai crollare. Ogni lacrima, ogni goccia di sudore sono state la sorgente da cui forgiare una tempra da leader, un carattere forte. E in campo lo si vede eccome, alla soglia dei 24 anni Arshavin gioca con la tranquillità di un veterano.

La svolta in casa Zenit è segnata dall’approdo in panchina di Dirk Advocaat. Il professore scende dalla cattedra e si cala in trincea portando una nuova idea di calcio: un 4-3-3 tutto sfrontatezza, basato sul predominio offensivo del campo. Insieme alla nuova guida tecnica arrivano alcuni giocatori di ottimo livello: Tymoschuk, Pogrebnyak e Dominguez.
Quella squadra è semplicemente una venere calcistica. Gioca da dio, ad un ritmo non consono per il campionato russo; Arshavin canta e porta la croce, è il diamante grezzo della rosa, la sua duttilità gli permette di essere impiegato sia sulla fascia destra che sulla sinistra, ma in realtà è lui a cercare lo spazio che desidera, l’angolo di campo dal quale è in grado di plasmare bellezza. Quello Zenit riesce nell’impresa di vincere il campionato dopo decenni di dominio moscovita.

Il 2008 è l’anno della consacrazione. Eppure è una stagione che sembra iniziare col piede sbagliato. In campionato lo Zenit lascia troppi punti per strada, specialmente se CSKA e Rubin macinano vittorie al ritmo di due schiacciasassi. Lo Zenit, quale campione di Russia, si trova a partecipare all’Europa League, ma anche lì le cose sembrano andare a stento. Passata per il rotto della cuffia come terza del girone, la squadra di San Pietroburgo si trova a fronteggiare il Villareal dei vari Cazorla, Cani e Rossi. Il pronostico è nettamente a favore dei sottomarini gialli, ma la meraviglia di questo sport è che di scritto non c’è proprio niente, specialmente se la sinfonia di Advocaat comincia a suonare divinamente. Qualcosa sembra definitivamente sbloccarsi nella testa e nelle gambe della squadra russa. Tutto riesce a meraviglia, quel calcio fatto di ritmo, intensità e qualità nelle giocate torna naturale. La potenza di fuoco del tridente offensivo si rivela in tutta la sua letalità. Pogrebnyak si scopre al mondo come cecchino e guerriero delle palle alte, Dominguez come una perfetta spalla in termini di qualità e vena realizzativa. Il tutto coordinato dal maestro d’orchestra con la 10 sulle spalle. Arshavin svaria armoniosamente su tutto il fronte offensivo, quasi con fare sornione, pronto ad illuminare il gioco e risolvere le gare con una giocata cristallina. Gli spagnoli e poi il Marsiglia capitolano al Petrovskij.

Il tabellone ai quarti di finale recita Bayern Leverkusen, altro avversario arcigno. In Germania però l’armata russa irrompe alla BayArena mandando in frantumi qualsiasi velleità tedesca. Finisce 1-4. Arshavin è protagonista assoluto, irradia calcio allo stato puro ad ogni tocco di palla; sfera che non si stacca mai da quel meraviglioso piedino destro. Sigla lo 0-1 sfrecciando sulla zona sinistra del campo con un delizioso tocco di esterno mancino e quando si trova a tu per tu con l’estremo difensore scaglia un bolide sotto l’incrocio dei pali. C’è tutto: talento, potenza, purezza. Diamante grezzo, appunto.

Il cammino dello Zenit assume contorni eroici. L’undici di Advocaat è partito sempre da outsider e ha travolto chiunque fosse incappato sul suo cammino. La semifinale si preannuncia realmente proibitiva, poiché a Nyon la malefica pallina ha dentro scritto “Bayern Monaco”. All’andata in Baviera finisce 0-0, Arshavin viene ammonito e da diffidato è costretto a saltare il ritorno. Lo Zenit, anche se privo della sua luce, nel fortino del Petrovskij si trasforma: è come se quel posto fosse ammantato di un’aria magica, un po’ come l’antro della maga Circe. Il Bayern Monaco quell’anno però è tutt’altro che Ulisse, e finisce vittima dell’ennesima goleada a marchio zarista.
La finale, paradossalmente, è la partita meno impegnativa del torneo per l’armata rossa. Il catenaccio del Glasgow Rangers si sfalda di fronte alla potenza di fuoco russa. Arshavin gioca l’ennesima partita sublime, nella quale mette in mostra tutto il suo repertorio e fa venire il mal di testa alla lenta retroguardia scozzese. Lo Zenit si sbarazza facilmente dei Rangers ed alza un epocale trofeo internazionale nella magica notte di Manchester.

Ah… il fascino dell’Inghilterra. A fine stagione il gioiellino di San Pietroburgo è conteso da tanti top club europei. C’è però un tecnico che più degli altri è disposto a far follie per avere alla sua corte l’elegante zar: è Arsene Wenger. Il tecnico francese si è letteralmente innamorato di quel folletto che aveva incantato mezza Europa. Convince la società a staccare un assegno da 15 milioni di euro, rendendo così Arshavin il calciatore più pagato nella storia dei Gunners sino a quel momento.

Il campionato russo chiude i battenti a Dicembre, pertanto il calciatore non può atterrare a Londra prima del Gennaio 2009. In Russia e Inghilterra non si fa altro che parlar di lui, ormai è divenuto una celebrità, tutti lo aspettano, ma lui la pressione non la sente, ha affrontato sfide ben più difficili di cui aver veramente paura, perciò si fa trovare pronto.

Se lo stereotipo del calciatore ci racconta di un tipo schivo, poco scherzoso e chiuso nel suo mondo austero, con Arshavin dobbiamo sicuramente ribaltare il paradigma. Di lui, il compagno ghanese Frimpong, dirà in un’intervista: “Il giocatore più strano che c’era a Londra? Senza dubbio Andrei Arshavin! In senso buono, ovviamente, era strano in maniera positiva. Era sempre allegro, rideva sempre, portava sempre tanta gioia. Probabilmente beveva molto whiskey. Era normale tutto ciò, d’altro canto lui è russo e tracannava moltissimo”.

E’ proprio così. Arshavin non sa cosa significhi camminare in punta di piedi, anzi, irrompe all’Emirates con la furia di un’amazzone. Nelle prime dodici apparizioni con la maglia dei Gunners segna sei reti e colleziona otto assist. Mette in mostra un talento sublime, fatto di dribbling ubriacanti misti a un carisma autentico, figlio dell’irriverenza e dell’incoscienza (quella bella). Serpentine e fantasia , ma anche tanta corsa, quasi come se il suo tratto indolente fosse svanito oltrepassando la Manica. C’è una partita che più di tutte fa capire di quale pasta sia fatto questo meraviglioso giocatore.

Ad Anfield Road va in scena Liverpool-Arsenal, partita dalle memorie nostalgiche, un vero e proprio cult in Terra d’Albione. Nel teatro dei più incredibili colpi di scena calcistici, Arshavin tiene a far sapere al pubblico che è un attore degno di quel palcoscenico, e decide di farne quattro. Ce n’è per tutti i gusti: una rete da rapace d’area di rigore, un destro terrificante da fuori area dopo aver dribblato dalla sinistra verso il centro del campo, infine una corsa di 80 metri a tutta velocità terminata scagliando in rete la sfera con un sinistro violento. E quella faccia dannatamente strafottente, quasi a dire: “Signori ve ne ho fatti 4, non so se mi spiego”. Il genio e la follia, racchiusa in quel ditino rabbioso davanti alla bocca rivolto verso la sua tifoseria, senza che nessuno ne capisse il reale motivo. Quel ditino diventerà tratto sublime delle sue esultanze: da quel giorno tutti i presenti all’Emirates coveranno la speranza di essere zittiti da una magia del piccolo zar.

Le parole di Artur Petrosyan risuonano come un monito: “il problema della maggior parte dei calciatori russi risiede nella mancanza di ambizioni”. Ed anche per il buon Andrei le cose non stanno molto diversamente. Una volta giunto ai vertici della propria carriera, inizia a guardarsi intorno, poi dall’alto verso il basso, compiacendosi narcisisticamente. La luce del genio inizia lentamente a diventare sempre più flebile. Perché Arshavin è anche questo, è uno capace di regalarti momenti di calcio inimmaginabili, che vorresti non finissero mai, ma anche dannatamente incostante. Progressivamente il talento russo scivola sempre più ai margini della rosa di Wenger, ma nessuno riesce a sbattergli la porta in faccia. È vero, ormai corre poco ed è indolente, ma ci sono ancora spezzoni in cui riesce a stregare tutti.

L’Europeo del 2012 rappresenta per Arshavin l’ultimo treno per rilanciarsi nel calcio che conta. La Russia, guidata dal mentore Advocaat, parte alla volta della Polonia con grandissime aspettative, ma finisce per schiantarsi fragorosamente contro la cruda realtà, che la vede uscire dalla competizione già nella fase a gironi, dopo tre partite tutt’altro che esaltanti. Tutto sembra andare a rotoli, but the worst is yet to come. Al ritorno dalla spedizione fallimentare, nel bel mezzo dell’aeroporto di Mosca, Arshavin si rende protagonista di un alterco con un tifoso russo che chiedeva delucidazioni sulla debacle. Quella lite fa in pochi minuti il giro delle televisioni nazionali. È lì che il mito di Arshavin si incrina irrimediabilmente anche in patria. Anche la sua gente, quella che l’ha coccolato e cresciuto, sembra voltargli le spalle dinanzi a un comportamento inaccettabile.

A partire da questo episodio la vita di Andrei entra in una spirale burrascosa. Il divorzio, l’odio in patria, lo scarso rendimento: un torrente di eventi travolge la carriera del calciatore russo, ma stavolta è diverso, la forza di rialzarsi Andrei non ce l’ha.

Dopo un ultimo anno anonimo vissuto a Londra, in patria si torna a parlare di lui su tutte le testate. Sì, perché lo Zenit sembra essersi deciso a riportare a casa il suo talento, il diamante forgiato sulle rive della Neva. La spaccatura tra i tifosi è netta: c’è chi sogna un ritorno romantico e chi invece non ha intenzione di perdonargli l’increscioso gesto di qualche mese addietro.
L’operazione va in porto. Andrei è strafelice di tornare a giocare nella città che lo ha visto affermarsi ai migliori livelli. Vede nel ritorno al Petrovskij l’opportunità di riguadagnare la stima persa, di tornare a essere la bandiera della sua gente. In realtà, ad insaputa di Arshavin, più che di un’operazione tecnica si tratta di una trama di marketing ideata da Gazprom. Infatti, nel progetto tecnico di Villas Boas, non ci sarà spazio per eroi del passato come lui e Kerzhakov, che verranno confinati ai margini della rosa. Andrei non si sente apprezzato, pensa di essere nel posto sbagliato, e quando è così, si lascia andare: si allena poco e male, anche il peso diventa un optional.

Nonostante un anno tumultuoso, lo Zenit riesce a vincere il campionato. Così, la sua gente, in un ultimo atto di amore, gli dedica una romantica coreografia d’addio.