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domenica 24 Novembre 2024
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Il sorriso disperato di Gary Speed

8 ' di letturaCi sono delle volte in cui, nel mentre ce ne stiamo seduti di fianco a qualcuno che amiamo, non riusciamo a renderci conto che un sorriso, una pacca sulla spalla e qualche battuta, non sono in realtà dimostrazioni di serenità, al contrario nascondono la più totale disperazione. Siamo a pochi centimetri da quella persona, ma non ci accorgiamo che non sta bene, potremmo aiutarla, ma lei non ci dice nulla e noi non possiamo vedere oltre quegli occhi, non possiamo andare oltre a quel sorriso che conosciamo alla perfezione, un sorriso che abbiamo visto migliaia di volte sul campo di allenamento, il sabato durante la partita dopo un gol o dopo un assist; il sorriso che vediamo quando andiamo insieme a bere una birra al pub o quando con le nostre mogli e i nostri figli ce ne andiamo tutti insieme a cena fuori. Ad averlo saputo, che quel sorriso era in realtà un grido di disperazione, avremmo potuto fare qualcosa.

 

Il pomeriggio di sabato 26 novembre 2011 all’Old Trafford si gioca Manchester United contro Newcastle United. La partita è importante, promette di essere bella e poi, giocano i Magpies, già questo da solo vale come motivazione per andare allo stadio e vale ancora di più se il tuo nome è Alan Shearer.

Quel pomeriggio Shearer la partita non andò a vederla da solo, ci andò insieme ad un suo grande amico, anche lui vecchia gloria delle “gazze del nord”, Gary Speed.

 

  • La partita è bella, divertente, il “Teatro dei Sogni” è come sempre uno splendore, che importa se abbiamo calpestato quel prato decine e decine di volte, non ci si abitua mai, non è possibile. Siamo due vecchi amici che vanno a vedere la loro squadra, che tra l’altro sta anche andando alla grande quest’anno, giocare contro una delle migliori squadre al mondo. Siamo sereni, si ride, si fanno battute. Qualcuno, più di qualcuno a dire il vero, ci chiede una foto, degli autografi. Commentiamo il gioco e gli episodi, chi meglio di noi può farlo, io sono il più prolifico cannoniere nella storia del campionato inglese e Gary è, oltre ad essere stato un grande calciatore, l’allenatore della Nazionale gallese. Che poi, a pensarci bene, lui è sempre stato un allenatore anche in campo. Parla sempre di calcio; a Gary piace parlare di ogni squadra, lo ha fatto anche oggi in tv, per la BBC. È proprio da lì, dagli studi della BBC, che mi ha raggiunto qui all’Old Trafford. Sembra una bella giornata, una come tutte le altre in cui vado a vedere una partita allo stadio insieme al mio amico.

 

Questa volta, quel re Mida che in Galles tocca il piede sinistro di qualche ragazzino e lo trasforma in oro, ha scelto di toccare quello di un ragazzo diverso da tutti gli altri, un ragazzo dalla sensibilità particolare, una sensibilità immensa, forse troppa, un ragazzo che malgrado la risolutezza e la solidità apparente, dentro era così fragile che tutto, piano piano, si è sgretolato come un castello di sabbia su una spiaggia quando scende la sera e si alza la marea, onda dopo onda.

Nella terra che è “l’origine del mito” di due come Ryan Giggs e Gareth Bale, una cinquantina di anni fa o poco più, nacque un certo Gary Speed, uno che la banalità non ha mai saputo che cosa fosse. Speed ha rappresentato tante diverse cose per il calcio britannico e, soprattutto, gallese. Tuttavia, ciò che lo ha caratterizzato in modo particolare è sempre stato l’atteggiamento tenuto sul campo. Quando si dice sul campo, in questo caso, si intende sia sul rettangolo di gioco che a bordo campo, da allenatore. Speed, come suggerisce il suo nome, era veloce, un maestro dei tempi di gioco, bravo negli inserimenti, ottimo assistman e, pur non essendo un attaccante ed avendo iniziato addirittura da terzino sinistro, discreto realizzatore.

 

Tributo a Gry Speed, grande calciatore, grande uomo

Gary Speed è sempre rimasto sul pezzo: forma fisica sempre perfetta, serietà, puntualità, disciplina ferrea, anche in termini di cartellini: se parliamo del secondo calciatore gallese, dopo Giggs, più presente in Premier League e di colui che ha raggiunto, prima di essere superato da David James e, appunto, dal connazionale Ryan Giggs, il primato di presenze nella massima serie inglese, forse possiamo intuire che abbia ricevuto pochi cartellini in carriera.

Anche grazie a questo, Gary Speed ha collezionato importanti soddisfazioni. Il titolo vinto con il Leeds nella stagione 1991-1992, solo due anni dopo la promozione dalla Second Division, vinta anche quella, rappresenta il punto più alto toccato in carriera da Speed. Dopo quella irripetibile stagione Gary non vincerà più il campionato, ma le soddisfazioni non mancano.

Nel 1996 Speed coronò il sogno di firmare per la squadra del suo cuore: l’Everton. Da bambino Gary tifava Everton grazie ad un suo connazionale e concittadino, Kevin Ratcliffe. Ratcliffe era stato un ottimo difensore, capace di arrivare a vestire la fascia di capitano dei Toffees vincitori del campionato nell’85 e nell’87, di una F.A. Cup nell’84 e di una Coppa delle Coppe nell’85.

A Goodison Park rimase per due anni, i due anni che lo consacrarono definitivamente. Questa fu l’esperienza che lo vide diventare un calciatore completo. Gary infatti aveva sempre lavorato duro per diventare decisivo anche in zona gol e, a dir la verità, già negli ultimi anni a Leeds aveva segnato diverse reti, con l’Everton i gol arrivarono, ma arrivò anche la consapevolezza di essere un giocatore eclettico, capace di fare l’ala, di difendere e, all’evenienza, di giocare in mezzo al campo partecipando maggiormente all’impostazione di gioco. Questa insolita determinazione e la serietà dell’esterno gallese gli assicurarono la stima degli altri club di Premier.

 

Nell’estate del 1998 arriva una chiamata speciale, quella del Newcastle United. Il Newcastle di quegli anni è quello di Shay Given, di Shearer, di Dier e Bellamy e di tanti altri grandi giocatori. Speed si ritagliò per molti anni un posto da titolare inamovibile. Tantissime le presenze e ottima media sia realizzativa che di assist forniti ai compagni, il tutto arricchito dal quarto posto del 2001-2002 e dalla qualificazione in Champions League.

La carriera di questo splendido esterno sinistro è stata una gran bella storia, la carriera di un calciatore e di un uomo che è sempre stato considerato un capitano, anche quando non portava la fascia al braccio. Anche gli ultimi anni sono stati ricchi di emozioni. L’esperienza al Bolton ha portato Speed a conoscere una nuova realtà della Premier e a far innamorare i tifosi del Reebok Stadium. Nonostante l’età, non più così giovane, Speed fu capace di riconfermarsi in uno stato di forma impeccabile che gli consentì di essere quasi sempre presente tra le fila dei Wanderers. I tifosi del Bolton non dimenticheranno mai il sesto posto del 2004-2005, posizionamento che valse alla piccola squadra dell’area metropolitana di Manchester la storica qualificazione in coppa Uefa.

Già a Bolton se ne erano accorti, ma soprattutto era stato lui stesso a rendersene conto, che il futuro di Gary non poteva che essere in panchina. Aveva sviluppato una coscienza tattica impressionante, tutti i suoi compagni e i suoi allenatori lo avevano notato e lo avevano incoraggiato ad intraprendere questa affascinante ma difficile strada.

 

La prima panchina gli venne assegnata al termine della sua ultima stagione da professionista dalla società per la quale giocava, lo Sheffield United, in Championship.

 

Gary si distinse immediatamente: grande empatia con i calciatori, idee interessanti, bel gioco. Solo pochi mesi più tardi ecco la grande occasione, la panchina del suo Galles, per cui in carriera aveva giocato ben 85 partite. Gli offrirono il posto da c.t., ovviamente accettò la sfida.

Messa la firma sul contratto per la panchina della nazionale dei dragoni, Speed è sulla via del successo da allenatore, dopo averne avuto uno straordinario da giocatore. La prima partita del suo Galles si giocò l’8 febbraio 2011. Una sconfitta, ma non importa, siamo solo all’inizio.

 

 

È qui che inizia la tragedia di Gary Speed, anche se a dire il vero Carol, la sua amata mamma, sapeva bene che Gary era uno che aveva sempre visto il “bicchiere mezzo vuoto”.

Gary era sempre piaciuto a tutti, chiunque lo conoscesse lo stimava, in molti lo amavano. Grande stima nei suoi confronti ce l’aveva anche la Famiglia Reale: il principe Carlo gli aveva consegnato il Member of the Order of the British Empire, onorificenza che premia i migliori sportivi del Regno Unito. Il suo matrimonio sembrava felice, qualche litigio con la moglie Louise, ma niente di così importante, niente di grave. Teneva molto alla sua famiglia, teneva ai suoi due bambini, Thomas e Edward. Non mancava niente a quest’uomo: una carriera da sogno, il sogno che lo aveva sempre cullato fin da piccolo, la possibilità di sfondare da allenatore, una bella famiglia. Ma non basta, non può bastare, non se alzi gli occhi e c’è il sole ma tu vedi sempre buio, non se torni a casa la sera e tutti ti accolgono felici ma tu non riesci a mostrare loro quanto li ami e ti chiudi in te stesso, non se al primo pensiero negativo tutto quello che pensi è: “ma che ci sto a fare al mondo, io”.

 

Poco prima delle 7 del mattino del 27 novembre del 2011, Louise si sveglia con un brutto presentimento, una sensazione scomoda, fastidiosa, che le fa quasi uscire le lacrime dagli occhi. Si gira nel letto, suo marito Gary non c’è, non è accanto a lei, strano che si sia alzato così presto di domenica mattina. Decide di andarlo a cercare.

La ragione di quella terribile sensazione era fondata, Louise lo scopre entrando nel garage. Gary è lì, senza vita, appeso ad una corda. Si era tolto la vita.

Immaginare cosa possa esserci dentro ad una persona che decide di compiere un gesto simile in casa propria, con la sua famiglia presente, non è un diritto che realmente abbiamo. In quel momento Louise ripensò alle volte in cui, dopo qualche discussione avuta con il marito, questi le aveva detto: “guarda che mi ammazzo”. Non ci aveva mai creduto per davvero, non aveva mai dato un peso a questa cosa, eppure lo conosceva Gary: per lui c’era sempre qualcosa che andava storto; anche quando giocava aveva questi momenti di totale tristezza, ma poi tornava subito ad essere sereno, sorridente, voglioso di rimettersi sotto per raggiungere gli obiettivi che si era posto. Questa volta non ce l’aveva fatta.

 

  • Mi sveglio verso le 9 del mattino. Vado a prepararmi la colazione, è domenica e sto per passare una bella giornata in famiglia. Perché il telefono vibra così tanto? Vado a dare un’occhiata. È Louise, la moglie di Gary, perché mi ha chiamato così tante volte? E perché ho così tante chiamate perse e messaggi dai miei ex compagni di squadra? Una volta preso il telefono in mano capisco tutto, non ho neanche bisogno di leggere tutti i messaggi ricevuti. Mi sento come se mi crollasse il mondo addosso, le gambe iniziano a tremare.

Questa tragedia mi morde il cuore. Ma come, ieri siamo stati tutto il giorno insieme, ci vediamo spesso, parliamo, perché non mi hai detto che stavi male? Perché non ti sei aperto con me? Io sono tuo amico, non dovevi fingere di essere sereno, io non sono un giornalista o un tuo calciatore che hai appena conosciuto. Perché non mi hai permesso di aiutarti?

Ma che stupido. Ero io che dovevo vedere oltre, sicuramente mi hai lanciato dei segnali, ma per qualche assurda ragione non ti ho capito, io che ti conosco così bene non sono riuscito a capire che mi stavi chiedendo aiuto. Il tuo sorriso era lo stesso di sempre, quello di ogni partita che abbiamo visto insieme, quello di ogni volta che siamo usciti per bere qualcosa e per chiacchierare, quello dei momenti felici. Se solo fossi stato capace di capire che quel sorriso non rifletteva quello che avevi dentro, se avessi capito che, anche se stavi sorridendo, in realtà stavi gridando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota: le riflessioni di Shearer riportate in forma di discorso diretto sono totalmente frutto della mia immaginazione.

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