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sabato 23 Novembre 2024
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Il giorno in cui sono morto per la Subway Army

5 ' di letturaCi chiamano Apprentices. ll nome non so chi l’abbia inventato, ma è azzeccato. Cristo se lo è. Io e Bobby ci stiamo dentro da un paio di anni, a dispetto delle nostre lentigginose facce da lattanti. E’ stato lui a introdurmi: conosceva un tizio, un certo Alan qualcosa, giù in centro città. Un ragazzo a posto, gran lavoratore, tipo tutto d’un pezzo. Alan è davvero un magazziniere impeccabile, ci potete giurare. Sua moglie, Beth, gli ha dato tre bambini: tutti maschi. Alan è un padre provetto, un genitore irreprensibile, anche se ha soltanto trent’anni. Al pub però, dopo la quarta pinta, ha confidato un vizietto a Bobby. Non lo so perché mi scorrono davanti queste immagini proprio adesso. E’ così buffo e fa così male allo stesso tempo. Il dolore è lancinante: mai provato prima. Penso che dovrei pensare a Susan, la mia fidanzata. Ma non ci riesco, mi vengono in mente solo i ragazzi.

Comunque, giù al pub, Alan ha incontrato Bobby quasi per caso. Si conoscono da anni, perché sono vicini di casa. Così Alan gli fa “Bobby, ehy Bobby! Che ci fai qua alla tua età? Sei un duro, eh? Vieni, ti offro una pinta”. Bob non può ancora saperlo, ma sta per entrare nella Subway Army, la Firm del Wolverhampton Wanderers. Accanto ad Alan infatti c’è un gruppo di altri ragazzi: alcuni giovanissimi, altri più maturi. “Lo sai chi siamo, eh Bobby? Lo sai che ci facciamo qui?”. Il mio amico scuote la testa. La gente intorno a lui ridacchia. “Ma come Bob, come sarebbe a dire che non lo sai? Noi siamo la Subway fottuta Army! Cosa facciamo? Nulla di particolare: ogni weekend ci prendiamo una pausa da noi stessi. Dalle nostre vite monotone. E rompiamo il culo a quei rammolliti del West Brom”.

Bob Watson è il mio migliore amico da sempre. Siamo uniti fin dai tempi dell’asilo: il primo giorno le nostre mamme ci scesero di macchina praticamente all’unisono. Come fai a dubitare del tuo migliore amico? Non si può e basta. Così quando una sera di due anni fa mi dice: “Paul, devi entrare anche tu nella Subway”, io gli rispondo subito “Ok, sembra figo”. Bobby mi dice anche che d’ora in avanti dobbiamo rifarci il guardaroba: Gesù, ricordo ancora quei pomeriggi interminabili nei negozi dell’usato. Ma dobbiamo vestire casual, è questo il marchio di fabbrica. E’ questo il modo per mischiarsi con la gente normale premuta nella metro. Dicono che sia una subcultura, ma non ho ancora capito bene cosa voglia dire. Credo che a questo punto non lo capirò più.

Ci chiamano così perché i capi della Firm hanno scelto un biglietto da visita davvero originale: aspettiamo i nostri rivali sottoterra, nelle metropolitane. Non si accorgono quasi mai che ci siamo, fino a quando non saltiamo addosso. A volte la mamma mi chiede perché ho dei graffi o un occhio gonfio. Io non gliela dico mai, la verità. Le dico che mi sono picchiato con un bulletto a scuola. “Ma è sempre il solito?”, mi fa lei, distratta. Papà invece mi sembra quasi orgoglioso di me, ma nemmeno lui sa come stanno le cose. Cazzo quanto fa male.

La struttura è semplice: siamo un’ottantina in tutto. Quaranta adulti, venticinque ragazzi e una quindicina di noi – io e Bobby compresi – a formare The Subway Apprentices. Che grande onore farne parte! Ci insegnano cose che prima non avevo mai sentito. Cose come “difendi il tuo territorio”, fratellanza, solidarietà. Molti della Firm spiegano che picchiarsi è indispensabile per far capire chi comanda, ma l’importante è il rispetto. Non trascendere mai. Non esagerare. Però oggi quelli del Leeds questa regola mica l’hanno capita. Bobby mi preme entrambe le mani contro la pancia: sono completamente rosse. Piange a dirotto, poverino. E’ una tale assurdità a pensarci! Quello che piange ora dovrei essere io.

Non credevo che il 1982 potesse essere un anno così di merda! Anzi, doveva essere epico: ho appena compiuto 18 anni! Ho soltanto 18 stramaledettissimi anni! A quest’ora dovrei stare a festeggiare da qualche parte con i miei coetanei del cazzo. E invece manco per nulla. Me ne sto qua sdraiato a terra in questa strada che fino ad un attimo fa esplodeva di gente e ora ci siamo solo io e Bobby. Quelle merde ci hanno preso alla sprovvista: erano almeno il doppio di noi. Questi local woolie pensavano che scappassimo, ma siamo rimasti. Abbiamo combattuto fianco a fianco, fino all’ultimo. Come l’anno scorso, quando ce la siamo vista brutta un’altra volta. Ma lì eravamo comunque a casa nostra, nelle fottutissime West Midlands. E non avevamo certo paura di quei cagasotto che sbavano dietro all’Aston Villa.

Sta di fatto che sono le nove di sera e questi sbucano come dal nulla. Ci massacrano di botte, ma non arretriamo. Poi scappano tutti all’improvviso, rintanandosi dentro la The George Public House. Anche diversi dei nostri se la stanno dando a gambe levate. Cosa li ha messi in fuga? Io! sono stato io! Ma non sono un eroe, no. Sono un ragazzino. Solo un ragazzino stupido che sta morendo.

Ricordo una volta, due anni fa. Gli inizi, il brivido sottile della prima rissa che ti pervade ogni fibra. Nella Subway, durante il viaggio di ritorno, incrocio i suoi occhi. I miei erano pesti e lei mi fissava preoccupata. Allora mi avvicino e le mormoro poche semplici parole. “Ciao, io sono Paul. Paul Holborn“. Cristo, avevo le nocche sfondate. Lei me la stringe comunque. “Susan. Susan Bailey“. Non credo di essere mai stato più felice di così in vita mia: ero pieno di lividi, ma fluttuavo al tempo stesso. Scusami Susy. Tu me lo dicevi sempre. Che vita meravigliosa, sarebbe stata.

Bobby è l’unico che non mi ha lasciato solo. Non so come, ma trovo la forza per sussurrargli quattro semplici parole: “Non è colpa tua. Non è colpa tua“. So già che vivrà per sempre con questo rimorso. In lontananza, contro le pareti degli edifici, rimbalza il suono delle prime sirene. Polizia e ambulanze, il mix del giorno perfetto. Ecco, ora sì. Ora mi viene veramente da piangere. Ma non perché mi faccia male, no. La coltellata non la sento quasi più. Il mio corpo vibra, intorpidito. Sono quasi in trance. Piango per mamma e papà. Piango per Susy. Piango per Bobby. Per tutti quelli che mi volevano bene. E poi me lo concederete, no? In fondo sto morendo. Piango anche per me: per tutto quello che poteva essere e non sarà.

Ecco, lo sento. Non ci sono più. In lontananza Bobby frigna come un disperato. Ora lo vedo tutto sfocato. Mi arrivano anche parole confuse, a tratti, mentre la pozza di sangue intorno a me divampa sul selciato freddo. E’ strana, la morte. Non l’avevo mai provata prima. La mia ultima immagine è quel giorno che siamo scesi di macchina insieme, io e Bobby, la mamma che mi teneva per mano. Poi è tutto buio, di colpo.

Chiedo scusa a tutti, davvero. Quando inizi non ci pensi mai, che potrebbe finire così. in fondo chi di noi ci pensa mai?

Socchiudo gli occhi per uno spasmo involontario. In bocca il sapore del sangue. Contemplo i miei ultimi cinque secondi nel mondo.

Ora è davvero tutto. Sono Paul Holborn. E oggi sono morto per la Subway Army.


Tratto da una storia vera: i nomi dei protagonisti e la vicenda personale di Paul sono stati modificati dall’autore.

Dopo questo omicidio la Subway Army venne sciolta.

 

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Paolo Lazzari
Paolo Lazzari
Giornalista

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