Il centrocampista turco rimase nel Lancashire per otto lunghe stagioni, guadagnandosi uno status di culto tra i fedeli di Ewood Park per la sua dedizione instancabile e per la passione trasudata su ogni pallone.
Souness rimase stregato dal talento di Tugay già ai tempi della sua esperienza manageriale in Turchia. Il coach scozzese guidò il Galatasaray per una sola stagione, tempo però sufficiente a convincerlo che Tugay fosse un calciatore in grado di calarsi in qualsiasi centrocampo, adattandosi a qualsiasi modulo, in qualsivoglia campionato, con il medesimo risultato: essere il metronomo della squadra.
Il buon Graeme sapeva benissimo che il Blackburn, tornando ai più alti livelli del calcio inglese, avrebbe avuto bisogno di rinforzi d’esperienza. Tugay, nella sua testa, risultava una pedina strategica per competere e rendere onore alla categoria.
Il debutto con i Blue and Whites avvenne in una gara trionfale contro il West Ham. L’esperienza di Tugay in Terra d’Albione ci racconterà di un interprete lontano dall’esser prolifico sottoporta; ciononostante in quella partita il turco riuscì a timbrare il cartellino con un gran goal dalla distanza, dando immediatamente sfoggio di un piede assolutamente educato. Un esordio perfetto, coronato da una roboante vittoria per 7-1 a danno dei malcapitati Hammers.
Durante il periodo trascorso ai Rovers giocò sotto la guida tattica di quattro diversi allenatori – Souness, Hughes, Ince, Allardyce- ma nessuno di questi intese rinunciare al suo indispensabile contributo in mezzo al campo. “Datemi Tugay ed altri dieci giocatori”, il concetto era più o meno questo. In questo senso fu emblematica la risposta data da Mark Hughes alla domanda di un giornalista al termine di una gara nella quale il turco aveva dominato in lungo e in largo, dettando i tempi di gioco e non mancando un posizionamento tattico.
Giornalista: “Speravi che (Tugay) fosse dieci anni più giovane?”
Hughes: “No, perché se lo fosse stato avrebbe indossato la maglietta del Barcellona”.
Come il collante che tiene assieme tutti i pezzi di una struttura complessa, Tugay era il giocatore che permetteva a chiunque vestisse la sua stessa maglia di esprimersi al meglio. Non solo perché era un magistrale recuperatore palloni, ma anche perché difendeva con un’innata abilità nella lettura del gioco. Il grande senso tattico, misto ad un’ottima tecnica, lo rendeva incisivo anche nella fase di possesso: i suoi piedi erano sempre un porto sicuro in cui giocare il pallone quando i compagni erano sotto pressione. Con le sue traiettorie, talvolta astute, talvolta illuminanti, spesse volte metteva i compagni nella condizione di fare molto male agli avversari di turno.
Per capire quanto Tugay fosse adorato non solo da tifosi e allenatori, ma in primis dai compagni, basta dare uno sguardo a ciò che scrive su di lui Robbie Savage nel suo libro “I Tell You What”: “doveva avere 35 o 36 anni in quel momento, non sono sicuro, ma ricordo che, in un match contro il Liverpool, fece un doppio passo a Gerrard, poi fece scorrere un pallone vellutato per Pedersen, che crossò in mezzo all’area trovando McCarthy, che segnò regalandoci la vittoria. Cazzo, un doppio passo a Gerrard all’età di 36 anni! Era un giocatore incredibile. Poteva ricevere il pallone in ogni zona del campo e inventare qualcosa”.
Nel corso dei suoi otto anni di militanza con la casacca dei Rovers, nonostante la veneranda età, il turco non collezionò mai meno di 33 gettoni stagionali. Basti pensare che alla soglia dei 36 anni, nella stagione 2006-2007, il turco prese parte a ben 46 gare tra campionati e coppe nazionali. Tale longevità e continuità nelle prestazioni, miste al carisma e alle capacità tecniche, furono le qualità che i fans apprezzarono maggiormente. Il loro affetto si tradusse in amore eterno per quel guerriero dalla chioma grigiastra con il numero 5 sulle spalle.
L’ultima gara ad Ewood Park fu la romantica dimostrazione di quell’adorazione. Tra le migliaia di magliette bianche e blu esibite dalla folla, il rosso e il bianco, colori della bandiera turca, presero il sopravvento. Dopo il fischio finale, Tugay riemerse dal tunnel per un ultimo giro di campo. Doveva congedarsi dal popolo che aveva conquistato battagliando strenuamente su quel terreno. Dinanzi a lui un’interminabile sequenza di bandiere e striscioni. Il canto “Tugay, you’re my turkish delight” risuonò forte nell’aria, mentre il centrocampista, con la figlia in braccio, raccolse l’ultimo tributo da quella che per otto anni era stata la sua casa, la stessa che aveva difeso e illuminato.