La storia del giocatore Roberto Mancini è nota. Numero 10 sempre sulle spalle, dribbling geniale e fantasia, indolenza quanto basta e una luce luminosissima che – quando, ad intermittenza, si accendeva – lasciava tutti senza fiato. Ad appena 17 anni, nel lontano 1981, il debutto con la maglia del Bologna. Poi tanta, tantissima Sampdoria. Dei blucerchiati – insieme all’amico fraterno e partner d’attacco Gianluca Vialli – diventa simbolo e bandiera intoccabile. Trascina i suoi ad una storica vittoria in Coppa delle Coppe e, addirittura, nella stagione 1990-1991 porta lo scudetto nella città della Lanterna sotto la sapiente guida del leggendario Vujadin Boškov. Quello rimane, ancora oggi, l’unico campionato vinto dalla Sampdoria. L’anno seguente, addirittura, Mancini&Co. portano a casa la Supercoppa Italiana e sfiorano la vittoria in Coppa dei Campioni, battuti in finale solo dal Barcellona di Johan Cruijff e da una botta dalla distanza dell’olandese Koeman. Mancini, in quella squadra magica, è il diamante più splendente e luminoso. Il mago in grado di spaccare le partite in due con un’invenzione.
Dopo la lunga storia d’amore con la Sampdoria, nell’estate del 1997 il Mancio segue l’allenatore Sven-Göran Eriksson alla Lazio del patron Cragnotti. Tre stagioni intensissime, durante le quali viene ridisegnata la geografia del calcio italiano ed europeo. La Lazio vuole stare tra le grandi e, in tre anni, vince due Coppe Italia, due Supercoppe Italiane, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea e, alla fine, il tanto agognato scudetto. Nesta, Simeone, Nedved, Almeyda, Mihajlović, Bokšić, Stanković, Veròn, Simone Inzaghi e Ravanelli. Mancini, ovviamente, è il padre putativo di questi giocatori meravigliosi, la guida sapiente pronta a dare l’esempio con esperienza, fantasia, classe e la sua consueta eleganza. Al termine della stagione 1999-2000, con lo Scudetto ormai cucito sul petto, il Mancio annuncia il suo addio al calcio giocato per diventare vice-allenatore della Lazio.
Falso allarme, però. All’inizio del 2001, infatti, Mancini cambia idea e decide che non è ancora giunto il momento di appendere le scarpette al chiodo. Destinazione? Inghilterra, un preludio di ciò che avverrà durante la sua carriera in panchina. Squadra? Leicester City. Ovviamente non è il futuro Leicester di Ranieri e della lungimirante proprietà thailandese, ma da quelle parti si difendono comunque bene. Il Presidente è il ricco imprenditore John Elsom, il manager è il buon Peter Taylor e la stella della squadra è il gallese Robbie Savage.
Roberto Mancini, maglia numero 10, com’è ovvio che sia. Qualche sprazzo di magia da mostrare agli inglesi c’è ancora, ma il bottino è magro. Il Mancio gioca praticamente da fermo, a 37 anni il fisico non lo sorregge più. 4 presenze in Premier e 1 in FA Cup. Scende in campo nel pareggio contro l’Arsenal di Henry, Overmars e Bergkamp. Gioca, e perde, contro il Southampton di Le Tissier. Batte in casa il Chelsea degli italiani. Perde contro l’Everton di Duncan Ferguson e gioca in coppa contro l’Aston Villa.
Dopo un mese, però, decide di dire definitivamente basta con il calcio giocato. Un’esperienza brevissima, quella con la casacca del Leicester. Un’esperienza che, tuttavia, gli ha permesso di gettare in Inghilterra i semi per una ben più proficua avventura. Da allenatore, infatti, sulla panchina del City ha vinto una FA Cup, una Community Shield e un campionato al cardiopalma contro gli odiati rivali dello United, riportando gli azzurri di Manchester nell’olimpo del calcio che conta.