Nessuno ama il calcio come Sunderland. Nessuno ha bisogno del calcio come Sunderland. Forse sta racchiusa proprio qui, intrappolata in questa manciata di parole che suonano come un monito e ti accarezzano le tempie come una preghiera, l’incredibile annata 2017/2018 del Sunderland.
Precipitati in Championship dopo dieci stagioni consecutive di Premier League, i Black Cats sono alla ricerca di un riscatto immediato. Una situazione che, ben presto, fa venire l’acquolina in bocca al colosso dei colossi quando si parla di serie tv: Netflix.
Proprio così: la Fulwell73, compagnia che ha inciso nel proprio nome un chiaro omaggio al precedente stadio dei biancorossi d’Inghilterra, decide di spremersi per ricavare un diamante dal fango e l’infamia della retrocessione: una serie – documentario che, in otto puntate, dovrà raccontare la trionfale cavalcata del Sunderland verso il ritorno in Premier League. Già noti al grande pubblico per lavori come la Class of ’92 sul Manchester United, quelli della Fulwell intrattengono dunque un legame viscerale con la squadra e con la città. Proprio come i tifosi.
C’è infatti qualcosa di mistico, a tratti magico, forse finanche religioso a fare da collante tra la gente di questo avamposto infilato nel nord est dell’Isola ed il club. Sunderland è sempre stata una città prettamente industriale, avvitata intorno ai cantieri navali e minerari. Quando questa enorme mammella occupazionale si prosciuga, la gente sprofonda nello sconforto. Intere famiglie con un lavoro sicuro si ritrovano improvvisamente sul lastrico ed in migliaia faticano ad appiccicare il pranzo con la cena. Con il terreno che frana tutto intorno, resta soltanto una speranza a cui aggrapparsi. Una filosofia di vita in cui riconoscersi, un buen retiro perpetuo, per riscattare il senso di vuoto e lavare via la rassegnazione che avviluppa le vie respiratorie. Quella luce che brilla in fondo al tunnel si chiama Sunderland Association Football Club.
I produttori lo sanno bene e cavalcano l’onda, consapevoli di poter surfare verso il successo con disinvoltura. Così nasce Sunderland ’til i die. Solo che i capoccioni di Netflix non potrebbero sbagliarsi di più. Di sicuro, cannano terribilmente l’esito finale, ma paradossalmente azzeccano una vittoria sensazionale. Il drammatico racconto di una retrocessione inattesa si trasforma in trionfo mediatico.
Perché Sunderland ‘til i die è come una sorta di moderna tragedia greca. Sapete, no? Gli eroi che partono con i migliori propositi, la vita che sa mettersi in mezzo ghignando soddisfatta, la sconfitta che è tutta racchiusa nell’incolmabile distanza tra quello che volevi e quello che c’è. Insomma, una metafora delle nostre esistenze. Il documentario, poi, ha questa capacità quasi innaturale di tenere aggrappati gli spettatori allo schermo: lo inizi con diffidenza, ma ti ritrovi incollato per ore, gli occhi gonfi che non sai se è per via della troppa tv o per la commozione.
La serie è un capolavoro, fin dalla sigla. Le voci fuori campo, le interviste alla gente comune, i tifosi che raccontano una storia nella storia: tutto concorre a renderlo un format senza eguali sul mercato. Un prodotto, sì, ma che sviluppa sentimenti e passione al ritmo di una mitragliatrice semiautomatica.
Aiutaci a comprendere quanto il calcio possa essere importante per la nostra comunità. Mostraci come il football possa aiutare ad unirci. È la preghiera laica di un sacerdote cattolico, padre Lyden – Smith, che interviene in una chiesa gremita di sciarpe biancorosse ad inizio serie. Nemmeno lui però può sapere che il club è destinato a vivere un anno terribile e che, dalla speranza della promozione, finirà nell’accecante baratro della League One, dove è costretto a ritornare per la prima volta dopo che l’ultima era stata nel 1988.
Dietro ad ogni insuccesso, del resto, ci sono delle premesse scricchiolanti. Quelle del Sunderland hanno un nome e un cognome. Non rimanete lì a bocca aperta con il vostro drink in mano, prendete nota: Ellis Short. Quando il club retrocede in Championship sotto la guida di David Moyes – è la primavera del 2017 – le prime crepe cominciano dalla rovescia: partono dai piani alti. Che Short intenda disimpegnarsi appare da subito evidente: 35 milioni di sterline spesi per una decina di giocatori e circa 29 incassati durante il mercato estivo. Uno sforzo risibile, se paragonato al volume d’affari che un glorioso club come il Sunderland è in grado di sviluppare. Short però ha deciso: rubinetti chiusi ed autofinanziamento. La cessione del portiere Jordan Pickford all’Everton – 30 milioni di sterline per l’attuale numero uno della nazionale inglese – consente di attutire i colpi e di respirare senza affanni.
Al timone effettivo del club però c’è Martin Bain, amministratore delegato con licenza di intervenire praticamente in ogni settore della vita del Sunderland. Nella serie Bain compare innumerevoli volte, sempre con un fare estremamente rassicurante, una fumante tazza di caffè sempre collocata sulla sua scrivania, in attesa di essere sorseggiata con fare pensoso. È persuaso che le cose andranno meglio, anche se quella chiesa a cielo aperto che è lo Stadium of Light viene profanata abitualmente. Anche se i ragazzi perdono colpi in trasferta. Fanculo, sono il genere di persona che è venuta qua per fare la differenza, dice abbastanza pieno di sè, quasi tronfio, in un passaggio cruciale del documentario. Cruciale, appunto, perché Bain la differenza la farà, ma in senso completamente opposto rispetto a quello che immaginava. Aspettative e realtà, una storia vecchia come il mondo.
Ma lasciamo le scrivanie e torniamo al campo. L’uomo scelto da Bain per la risalita è Simon Grayson, manager di comprovata esperienza (Blackpool, Leeds, Huddersfield e Preston North End nel suo curriculum). Grayson dovrebbe saper navigare le limacciose acque della Championship. Dovrebbe conoscere con dovizia di particolari gorghi e isole felici, lungo un cammino fatto di 46 interminabili incontri. E invece no, nemmeno per idea.
L’ultima amichevole precampionato è un campanello d’allarme che assomiglia ad una gigantesca sirena: 0-5 contro il Celtic. All’umiliazione ed al tracollo si aggiunge un altro terremoto quando Darron Gibson, uno degli elementi più talentuosi della squadra, si fa sorprendere sbronzo in un pub mentre parla male dei suoi compagni. Qualcuno riprende tutto con uno smartphone e la frittata è fatta.
L’inizio è una piacevole illusione: cinque punti nelle prime tre gare. Là davanti le cose funzionano – soprattutto Grabban miete vittime nelle impreparate retroguardie avversarie – e qualche giovane si mette in mostra. E’ uno stramaledetto fuoco di paglia. Il Sunderland è orribilmente corto di uomini, al punto che Lee Cattermole, il capitano, lancia un disperato appello a Martin Bain a cinque giorni dalla chiusura della finestra di mercato. Lack of bodies, sono le parole quasi gelide che pronuncia come un’inquietante premonizione. Quasi una sentenza mortifera. Nella sostanza, mancano giocatori per affrontare la stagione. Ma Ellis Short, come sappiamo, se ne sbatte altamente. Così Bain è costretto a lavorare di fantasia. A fare i salti mortali.
Ne uscirà una squadra rattoppata, con gravi lacune praticamente in ogni reparto e riserve non all’altezza dei titolari. Arrivano il difensore Marc Wilson, l’ala Callum McManaman ed il creativo centrocampista Jonny Williams, in prestito dal Palace, ma non basta. Non può bastare.
Grayson incappa in una sequela di sconfitte impressionante. Davanti alle telecamere risulta goffo, impacciato, incapace di trovare spiegazioni ragionevoli per le disfatte. Per licenziare il manager si attende fino alla gara contro il Bolton Wanderers che, tecnicamente, sarebbe messo anche peggio dei Black Cats. Finisce 3-3 con i tifosi inferociti, la gente che chiede la testa di Ellis Short ed il capo ufficio stampa che dà il benservito a Grayson annunciandolo in conferenza. Un fatto che testimonia il tracollo in cui il club è sprofondato.
Per reagire, Bain si affida ad un pezzo da novanta, ma prima che arrivi il Sunderland fa in tempo a diventare il primo club nella storia del calcio inglese a non vincere in casa per venti partite di fila. Il primato viene raggiunto durante il breve interregno di Robbie Stockdale, abile traghettatore verso l’abisso. Il pezzo da novanta, state dicendo? Eccolo: Chris Coleman, l’ex c.t del Galles dei miracoli, quello che ad Euro 2016 si era fermato soltanto in semifinale.
L’arrivo del nuovo tecnico imprime una scossa: i successi contro Burton Albion e Fulham, uniti ai pareggi contro Wolves e Birmingham, sono ossigeno buono per chi annaspa. Ma il peggio deve ancora venire. Grabban, l’uomo goal per definizione del club, chiede l’interruzione del prestito a gennaio e saluta la nave che affonda. Segnatevi questo momento: il disastro passa anche da qui, perché Martin Bain non riesce a trovare un altro cannoniere.
Senza qualcuno che sappia come spingerla dentro, con le vecchie insicurezze che riaffiorano, anche Coleman cola a picco. Williams si sente improvvisamente non all’altezza e decide di frequentare uno psicologo. Gibson viene definitivamente allontanato dal club dopo l’ennesima bravata, una fila d’auto distrutte dopo guida in stato di ebbrezza. Lo spogliatoio si sfalda. Tutti vedono nel compagno il colpevole della settimanale debacle. Il sostituto di Grabban, il legnoso Fletcher, si sblocca troppo tardi. La fine è ad un passo soltanto.
Il 21 aprile la tragedia sportiva raggiunge il suo climax. I Black Cats ospitano il Burton Albion e conducono 1-0 fino a 6’ dalla fine. Virtualmente, sarebbero a tre punti dalla salvezza. Poi l’ex Darren Bent pareggia e, in pieno recupero, Boyce segna il gol che condanna il Sunderland alla retrocessione in League One.
Piangono tutti: la cuoca Joyce, che ci ha accompagnato con i suoi sorrisi e le sue pinte di birra scolate avidamente fin dall’inizio della serie. Piange il tassista. Piangono padri, figli, madri e nonni. Piange anche il sacerdote.
Martin Bain deve finalmente guardarsi allo specchio: a fine stagione rescinderà il suo contratto.
Nel frattempo Short ripiana i debiti e vende ad una nuova cordata, liberandosi del peso che lo ingombrava: il Sunderland passa a Stewart Donald, che promette un veloce ritorno in Premier League. Netflix si sfrega le mani per un un insuccesso sportivo che promette di diventare – e lo diventa – un acchiappo senza precedenti.
Da allora il club continua a militare il League One e oggi si attesta mediocremente a metà classifica. Una ferita ancora sanguinante nel ventre di una comunità che comunque, ci potete scommettere, continuerà a identificarsi con i biancorossi più amati d’Inghilterra finché avrà aria per riempire i polmoni.
Sunderland ‘Til i die – Netflix trailer