Il nuovo corso non può trascendere da un completo riadattamento anche della figura stessa del calciatore. I comportamenti sopra le righe sono molto meno tollerati rispetto a pochi anni prima, e se è vero che Bobby Moore vinse un Mondiale andando al pub ogni sera e sudando la sbronza in allenamento la mattina dopo, ora si pretende dagli atleti uno stile politicamente corretto ed esemplare adatto a un pubblico di tutti i gusti e le età.
Così nasce una nuova categoria, in realtà sempre esistita ma mai bersagliata come in questo momento, in cui racchiudere tutti quei profili variabili tra lo scomodo e il disastroso, dove è possibile trovare dei veri e propri criminali con ai piedi scarpini da pallone così come giocatori dallo stile altamente agonistico e competitivo, e che sicuramente comprende anche tutti quei folli che non hanno mai imparato a tenere la bocca chiusa e dicono sempre ed esclusivamente ciò che gli dice il cervello. È ufficialmente scoppiata l’era dei “bad boys”.
Questi giocatori sono delle autentiche bombe a orologeria. Sicuramente scoppieranno, solo che non si ha il privilegio di poter sapere quando. Quasi sempre idolatrati dai tifosi della squadra di appartenenza, di cui a volte diventano capitani tanto temuti dagli avversari quanto rispettati dai compagni, tutti hanno in comune un rapporto con la carta stampata pessimo dove gli editorialisti li bersagliano di critiche su comportamenti in campo e fuori.
Il gruppo dei bad boys è ampio e variegato. Tra il filosofico misticismo condito da una piccante salsa al kung-fu di Eric Cantona e il pragmatico e criminale approccio al football “o la palla o la gamba, ma preferisco la seconda” di Vinnie Jones c’è un mare in cui navigano a pieno titolo grandi capitani come Roy Keane e Dennis Wise e bomber più recenti quali Diego Costa o Mario Balotelli, senza contare le perle di particolari individui come Joey Barton o Duncan Ferguson.
Spesso avvicinato a gente di questa caratura c’è anche un talentuoso e irrequieto giocatore gallese, uno di quelli che ha sempre diviso le folle. Craig Bellamy non si è mai ritenuto il più forte giocatore di Premier League del suo tempo, eppure quei pochi allenatori con cui è andato d’accordo durante la sua carriera lo hanno sempre ritenuto fondamentale per le sorti della squadra. Spesso il più basso di tutti quelli in campo, veloce e preciso col pallone tra i piedi ma atleticamente non eccezionale, centrocampista o attaccante a seconda delle necessità ma soprattutto sempre in movimento per tutta l’ampiezza del terreno di gioco, Bellamy ha rappresentato per anni una spina nel fianco per le difese avversarie ma è ricordato soprattutto per le sue disavventure. E spesso non si fa il minimo sforzo per cercare di capirlo.
Le origini del bad boy
Craig Bellamy è un fiero gallese, nato nell’ospedale universitario di Cardiff nel 1979. I Bellamy appartengono da sempre alla working class, con la madre che fa le pulizie tutto il giorno e il padre che lavora nelle acciaierie che definiscono al tempo buona parte dello skyline della capitale del Galles. Le difficoltà del settore metallurgico spingono la famiglia a trasferirsi a Trowbridge, un quartiere più esterno dove sono numerosi i progetti di edilizia popolare. Proprio una council estate è la nuova accomodazione del giovane Craig, che cresce in una delle tipiche comunità di quartiere in cui sembra che di soldi ne girino veramente pochi.
Trowbridge come tanti altri distretti di tante altre città della Gran Bretagna è un posto dove è difficile non solo diventare persone di successo, ma anche semplicemente elevare di poco il proprio tenore di vita. Le possibilità latitano, e lo stato sembra spesso dimenticarsi di chi vive lì. Uno dei pochi ticket di uscita dalla council estate è avere il talento per diventare uno sportivo di professione, ma anche in questo caso il passaggio dall’essere baciato dalla fortuna (o da Dio, a seconda della provenienza) al poterne fare il proprio lavoro è costellato di difficoltà. La pressione derivante dall’essere l’unico mezzo per la propria famiglia per uscire dal tugurio spesso è molto forte, quella dell’ambiente e delle consuetudini sociali del quartiere spesso rappresenta uno scoglio anche maggiore.
Bellamy assiste a tutto questo appena si trasferisce a Trowbridge. Il padre è grandissimo tifoso del Cardiff City e lo porta sempre alle partite giocate in casa, e il ragazzino cresce amando e giocando il football. Scopre presto di essere anche bravo, quando entra nella squadra della sua prima scuola e viene fatto giocare poco dopo con i ragazzi più grandi. A nove anni viene invitato a unirsi alle giovanili del Bristol Rovers, e due anni dopo arriva il Norwich a chiedergli di giocare per le proprie squadre di categoria battendo la concorrenza del Leeds.
Craig così inizia a viaggiare in treno tra Norwich e Cardiff, per gli allenamenti e per le gare della domenica. È ancora troppo giovane per lasciare casa, sono troppo importanti i legami familiari e le amicizie del suo quartiere. Eppure proprio Trowbridge rischia di diventare una zavorra impossibile da abbandonare. Come ogni povero sobborgo urbano che si “rispetti”, anche questo quartiere di Cardiff è pieno di storie di potenziali fenomeni arrivati a un passo da una carriera stellare. Un infortunio al momento sbagliato, mettere incinta la ragazzina con cui si scopre il mondo le prime volte, dover lavorare per assicurare alla famiglia quei pochi scellini per mettere un piatto in tavola alla sera, sono circostanze talmente comuni da non meravigliare nessuno che conosca quegli ambienti. E se non sono questi i problemi di solito si va in peggio: si inizia con una birra e un tiro di sigaretta offerto dall’amico più grande, si finisce a sniffare colla negli angoli più bui del quartiere. E da lì il salto a una carriera criminale è breve e apparentemente logico.
Craig Bellamy segue tutta questa trafila senza eccezione. Esce con ragazzi più grandi, lui che è uno dei tanti potenziali prodigi del football, e ne vede di tutti i colori. A dodici anni beve e fuma regolarmente con la sua comitiva, saltando la scuola anche per due settimane filate, anche se ha la fortuna di non essere attratto dalle droghe. A quattordici assiste ai suoi primi reati, fa il palo durante i furti degli stereo dalle macchine del quartiere da rivendere per avere soldi per le droghe. L’anno successivo aiuta un suo amico a rubare una macchina per poi farsi una guidata tra le strade di Cardiff; non viene scoperto ma è sull’orlo del baratro, non manca poco per commettere il passo decisivo nella discesa verticale verso il disastro. Ma proprio in quei tempi conosce Claire, una ragazza che diventerà poi sua moglie, e la relazione riesce a dargli quel minimo di forza per prendere una decisione netta: si trasferisce definitivamente a Norwich.
L’apprendistato da giovane giocatore di Bellamy però è tutto fuorché un bel ricordo. Lui stesso lo definisce il periodo più difficile della sua vita. Lasciare tutte le sue poche certezze a Trowbridge, la ragazza e la famiglia così come gli amici, per andare a vivere con un altro nucleo familiare estraneo, mette soggezione al ragazzo gallese che non sembra reggere le aspettative che gravano su di lui. Non riesce ad addormentarsi praticamente mai, smettendo di piangere solo quando il corpo troppo stanco esaurisce le energie rimaste. Chiama i suoi genitori in preda ai singhiozzi e non sembra esserci nulla che possa fargli nascere un mezzo sorriso. Nel club poi è accoppiato all’esperto difensore John Polston, in quella classica relazione mentore-giovane che è stata la base dello sviluppo dei talenti delle giovanili inglesi fino a pochi anni fa. Solo che Polston sembra non sopportarlo, e Bellamy pensa che provi spesse volte addirittura a umiliarlo davanti a tutta la squadra.
Il ragazzino delle council estate di Cardiff così non può che sbucar fuori e affrontare le situazioni come ha imparato per la strada: lottando e facendo a cazzotti con il mondo intero. I problemi disciplinari di Bellamy iniziano a diventare tanti, arriva fino a rompere il braccio di un aspirante portiere in una zuffa sul campo d’allenamento, ma è comunque il migliore della sua annata e alla fine il Norwich lo tiene facendogli firmare il suo primo contratto da professionista. Il giovane delle case popolari incredibilmente ce l’ha fatta, nonostante tutto e tutti giocherà in Premier League.
Una carriera difficile
La carriera di Craig Bellamy è talmente recente e nota al pubblico che non serve molto per ricordarla, così come le sue esagerazioni dentro e fuori il campo (che saranno appena accennate). Dopo l’esordio con il Norwich (e i suoi primi problemi alle ginocchia) e il passaggio a vuoto con il Coventry, è il Newcastle di sir Bobby Robson e Alan Shearer a imporlo sul palcoscenico della Premier League. Una squadra dai nomi poetici, guidata dal bomber cittadino e composta da personalità come Kieron Dyer, Lee Bowyer, Nolberto Solano, Laurent Robert. Sopra ogni altro, legati da uno stretto rapporto di amicizia, è il suo connazionale Gary Speed. Una squadra che secondo Bellamy ha overperformato, ha reso molto di più di quel che valeva, forte offensivamente ma impossibilitata a vincere trofei per la mancanza di cultura della vittoria e per carenze tecniche soprattutto difensive.
L’arrivo di Graeme Souness e la conseguente litigata portano a galla il secondo grande scoglio che Craig Bellamy si è trovato davanti durante tutta la sua carriera da giocatore: il rapporto belligerante con i propri allenatori. Souness è il primo di una serie di manager che lo hanno trovato intrattabile e incontenibile, in buona compagnia con Rafa Benitez e Roberto Mancini. Benitez, che lo aveva voluto come rimpiazzo di Djibril Cissé, lo terrà solo un anno a Liverpool nella annata forse più controversa della carriera del gallese. È la stagione delle accuse di assalto da parte di due ragazze in un nightclub di Cardiff; quella della famosa rissa a Barcellona con John Arne Riise finita con Bellamy che lo colpisce con la mazza da golf mentre il norvegese dorme nella sua camera, e apparentemente “risolta” in maniera incredibile dai gol proprio di Bellamy e Riise contro i blaugrana di Ronaldinho e Messi con tanto di esultanza in cui mimano lo swing. “The Nutter with the Putter”, il matto con la mazza da golf.
Roberto Mancini invece si trova sulla strada di Craig Bellamy tre anni più tardi, quando viene chiamato sulla panchina dell’ormai ricchissimo Manchester City. Bellamy è stato acquistato un anno e mezzo prima nella prima ondata di grandi spese della nuova proprietà dei Citizens. Il Mancio non è uno da farsi mettere i piedi in testa dai suoi giocatori, come bene si accorgeranno i tifosi del City in più di una occasione, Bellamy ormai è conosciuto per essere uno schietto che non le manda a dire a nessuno figurarsi a un italiano che si presenta con una giacca elegante da minimo 800 sterline quando assiste alle partite. Gli scontri sull’impossibilità del gallese di seguire la rigida programmazione dei doppi allenamenti dell’allenatore italiano, viste le già precarie condizioni delle sue ginocchia, portano a una rapida escalation di litigate e accuse che esclude definitivamente Bellamy dal progetto.
Gli allenatori con cui più il gallese si è più trovato a genio sono di tutt’altra pasta. Bobby Robson lo portò a Newcastle dopo un inseguimento di un anno, a sostituire un altro testa calda come Duncan Ferguson. Robson era un manager di altri tempi, che aveva visto il calcio che fu e giocato con gente a cui anche uno come Bellamy non aveva nulla da spiegare. Riusciva con abilità ad abbracciare e cavalcare i picchi positivi, così come a gestire gli inevitabili down. Dello stesso stampo paternalistico era fatto anche Kenny Dawglish, che lo riportò a Liverpool quattro anni dopo l’addio polemico con Benitez. Nonostante tutto il supporto del Re di Anfield però la seconda esperienza di Bellamy in maglia Reds si concluse comunque dopo una sola stagione, soprattutto per colpa di una tragedia che lascerà fortemente il segno sul ragazzo.
La vera grande piaga della carriera di Craig Bellamy però è stata quella degli infortuni. Dai primi colpi subiti dai senatori del Norwich durante l’apprendistato al football, le ginocchia del giocatore gallese sono sempre risultate fragilissime. Per un jolly offensivo come lui, sempre in uno stato di moto perenne senza possibilità di pausa alcuna, imprendibile per le difese compassate delle squadre inglesi, giocare a calcio diventa presto sinonimo di dolore e sopportazione. Nei primi anni le lunghe convalescenze sono accolte con rabbia, con la volontà di ritornare in campo il prima possibile per poter di nuovo spaccare il mondo, ma i momenti difficili delle sue gambe diventano talmente tanti ormai sono un’abitudine triste e nociva per il suo morale già spesse volte a terra. E quando ormai diventa evidente che anche i periodi in cui è libero dai problemi fisici sono costellati da medicine e costante prove di resistenza al dolore forse veramente non vale più la pena.
È così strano allora che questo ragazzino dei quartieri popolari di Cardiff, cresciuto in strada tra modelli pessimi di amicizie e circostanze della vita da cui si salvano in pochissimi, abbia vissuto la sua carriera in perenne lotta contro tutto e tutti? È così inammissibile che una persona dai comprensibili problemi psicologici, che finalmente stanno venendo a galla anche nella bolla dell’apparente supereroismo calcistico, risponda agli input negativi lanciati costantemente dal mondo che lo circonda alzando una barriera difensiva fatta di scontri fragorosi e comportamenti esagerati?
Gary Speed, Cardiff e il presente
Un passo fondamentale per lo sviluppo dell’uomo Craig Bellamy è l’aver dovuto gestire una tragedia così personale come il suicidio di Gary Speed. I due erano amici veri, best mates senza se e senza ma. Entrambi gallesi, entrambi ex Newcastle, entrambi combattenti testardi contro i demoni più difficili da affrontare per un essere umano: quelli che albergano senza possibilità di uscita nella propria testa. Bellamy per la prima volta non nasconde il suo personale dramma, e dichiara a mezzo stampa che la morte del suo grandissimo amico lo ha messo in estrema difficoltà. Lo ha portato a separarsi da Claire, con tre figli nel mezzo del disastro, e non sa cosa fare della sua vita e della sua carriera.
Così nonostante Brendan Rodgers, arrivato al posto di King Kenny sulla panchina del Liverpool, volesse fortemente il gallese come veterano in uscita dalla panchina, l’unica cosa che il ragazzo di Cardiff capisce di poter fare è quella di tornare a casa. Il Cardiff City lo aveva già ospitato due anni prima ma in prestito, ora invece lo firma in trasferimento gratuito. Bellamy ha bisogno di essere vicino ai figli, nella sua e nella loro città natale. Dove tutto è cominciato, dove può finalmente sentirsi tranquillo. Non importa essere in Championship, non importa non competere più per le competizioni più importanti. Tanto che in seno a una nuova consapevolezza e un diverso modo di approcciare il calcio conduce comunque la squadra alla promozione in Premier, “un sogno impossibile” che non accadeva dal 1960.
L’uomo che si ritira dal calcio giocato a 35 anni, dopo più di 450 partite e 150 gol, che ha vestito la maglia del Galles per 78 partite e ne è stato capitano per 4 anni, è totalmente diverso dal ragazzino impaurito che piangeva tutta la notte. Ha deciso di diventare un allenatore, ed è comunque riuscito a sollevare polemiche dopo che un ragazzino delle giovanili del Cardiff lo ha accusato di bullismo per i suoi metodi duri. Ma Bellamy stavolta si è espresso sulla questione in un modo che sembra dirla lunga sul percorso che ha compiuto: “Il mio obiettivo è quello di allenare ragazzi vincenti, se però ho inavvertitamente offeso qualcuno nel cercare di raggiungere questo obiettivo me ne scuso”. La colpa non è più solo degli altri, della situazione o di chissà cos’altro, sembra esserci un equilibrio interiore prima sconosciuto. Nel luglio 2019 è diventato manager dell’Anderlecht under-21 sotto la guida di Vincent Kompany, ed è attivo anche nel campo del sociale: ha versato 1.5 milioni in un progetto di sua ideazione per aprire una scuola calcio in Sierra Leone per dieci anni, e sostiene l’ospedale pediatrico dell’Università del Galles.
Craig Bellamy ha anche collaborato per anni con Sky Sport UK come opinionista. Nel maggio 2020 ha raccontato per cinquanta lunghissimi minuti la sua esperienza con la depressione diagnosticatagli pochi anni prima da Steve Peters, un famoso psichiatra esperto nella gestione degli sportivi d’eccellenza. Ha parlato di come ha influenzato tutta la sua carriera, di quanto abbia giocato un ruolo chiave nella rottura dei rapporti con la madre dei suoi tre figli, di come lo abbia scolpito nel male e nel bene nella persona che è ora. Non più uno dei bad boy del calcio inglese, “The Nutter with the Putter”, ma un uomo di quarant’anni che sta provando ad affrontare sé stesso e i suoi problemi nel ricordo del suo migliore amico che questa battaglia l’ha persa. Un finale che questa storia non dovrà avere.