“È terribile che abbiano dovuto fare una cosa del genere… Quello che dobbiamo fare è cominciare ad educare i ragazzi. Inizia tutto dai genitori. Non dobbiamo mai dimenticare questa campagna contro il razzismo, per superare questa piaga mondiale. Ma il male non vincerà mai contro il bene”: una confessione e una riflessione a posteriori di una carriera fulgida, fatta di tanti alti e qualche basso. È una favola, quella che Henrik ha scritto, militando soprattutto tra le fila del Celtic. Impossibile da raccontare in poche righe e iniziata nel 1997. Anzi: esattamente nel 1988 nell’Högaborg, proseguita nell’Helsingborg, sviluppatasi nei quattro anni al Feyenoord e poi appunto esplosa e realizzatasi col suo arrivo in Scozia. Seguiranno Barça e Manchester United: ma viene tuttora ricordato principalmente per i sette anni passati nella metà cattolica di Glasgow.
E dire che non parte bene: passaggio errato ad un avversario, gol e Hibernian che vince il match. Ci ricasca in Europa contro il Tyrol Innsbruck, facendo un autogol. Ok, reset. Doppio esordio da dimenticare… Ci riesce, col tempo: 242 gol in 314 partite lo rendono il terzo miglior marcatore di sempre dei Bhoys. I tifosi, in un sondaggio del 2002, lo inseriscono nel loro undici ideale. Segna in tutti i modi: lo vedi spesso a metà area svettare e colpire di testa oppure fiondarsi sulla palla in sforbiciata. Lo vedi raccogliere e trasformare sapientemente gli assist dei compagni oppure involarsi da metà campo dribblando chiunque provi ad ostacolarlo. E andare a festeggiare urlando, sorridendo e “ruggendo” quasi. Una scheggia impazzita, incubo delle difese avversarie. Tanto una faccia angelica quanto un marcatore spietato che non ti aspetti. Un istinto indomabile. Una classe pura, riconosciuta da tutti.
Anche se, ad un certo punto, il 21 ottobre 1999, l’incantesimo è sembrato spezzarsi, assieme alla sua gamba. In uno scontro di gioco con Serge Blanc (Olympique Lyonnais) partono tibia e perone. Una scena terribile. L’impatto, l’urlo, lo spavento, le lacrime, l’uscita in barella e la tristezza infinita dei presenti. Seguono circa nove mesi per superare lentamente l’incubo. Torna nella stagione successiva e, per fortuna, il vizio del gol non l’ha perso: anzi, è proprio al termine di quella ’00/’01 che segna la bellezza di 35 gol in 37 partite, vincendo così la prestigiosa “Scarpa d’oro”. Il leone è tornato e ha più fame e grinta di prima! Anche quella parentesi brutta è chiusa. E sempre in quei mesi gli Hoops conquistano un Treble di tutto rispetto: titolo nazionale, Coppa di Lega e Coppa di Scozia.
Certo, c’è la delusione della sconfitta nella finale di Coppa Uefa del maggio 2003: nella caliente Siviglia ci sono di fronte i lusitani di Mourinho (il Porto – arrivati lì eliminando la Lazio), che hanno la meglio solo nei tempi supplementari; finisce 3-2, nonostante un gol e una buona prestazione proprio del nostro Henke, eletto “man of the match”. “C’erano tantissimi tifosi del Celtic, tra i quali molti miei amici accorsi a vedere la partita, nonché mio padre. Fa ancora un po’ male quando ne parlo perché quella era una partita che avremmo potuto vincere e i tifosi del Celtic lo meritavano. Ma così è la vita… Era una partita davvero speciale perché erano tantissimi anni che il club non approdava a una grande finale. Inoltre avevamo un’ottima squadra quell’anno. Siamo riusciti ad arrivare quasi fino in fondo, sfiorando la vittoria.”
Ma nulla è andato comunque a rovinare i capitoli scritti, anzi (per meglio dire) le magie disegnate nell’arco di sette anni. Probabilmente è mancata la ciliegina sulla torta di un trofeo a livello internazionale, ma la parabola in maglia bianco-verde è compiuta, realizzata. Qualche rimpianto; nessun rimorso. Lascia Glasgow nell’estate del 2004, sognando di migliorarsi ulteriormente andando a giocare in terra spagnola, coi colori blaugrana… Regalando bei ricordi al punto che, proprio in una sfida tra le due squadre, quell’anno, i tifosi del Celtic gli dedicano un coro: “Give me joy in my heart, Henrik Larsson. Give me joy in my heart I pray. Give me joy in my heart, Henrik Larsson. Give me Larsson ‘till the end of day. Henrik Larsson is the king of kings!”
Cantavano invece gli Oasis, proprio nel 1997 (anno del suo approdo sulle rive del fiume Clyde): “…Hey stay young and invincible! ’cause we know just what we are and come what may we’re unstoppable! ’cause we know just what we are…” Ideale colonna sonora all’inizio di quella cavalcata crescente e inarrestabile. Suonata alla radio di qualche pub di Argyle Street, mentre sorseggia (convinto dal barista) un’amarognola stout, col pensiero alla sua Svezia lontana e negli occhi una miriade di sogni. Le favole finiscono: la sua no, è consegnata all’eternità. Ha pennellato tiri e insaccato palloni, corso come un matto, sofferto in alcuni momenti: ma non ha mai smesso di sorridere e il leone che è in lui non ha mai smesso di ruggire. È entrato nella storia calcistica non solo scozzese, ma anche europea e di un Paese intero. In nazionale ha portato alti i colori segnando 37 reti in 106 presenze e vincendo un prestigioso bronzo proprio ai suoi inizi: nel 1994, al Mondiale statunitense. Ha costruito negli anni con impegno, entusiasmo e dedizione la sua personale favola, quella di “the king of kings”, il re dei re di Glasgow: il ragazzo che conquistò Celtic Park e la Svezia!
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