“Non è facile diventare un tifoso di calcio, ci vogliono anni. Ma se ti applichi ore e ore entri a far parte di una nuova famiglia. In questa famiglia tutti si preoccupano delle stesse persone e sperano le stesse cose. Cosa c’è di infantile in questo?”
Ma come ha fatto Febbre a 90 a diventare un’icona generazionale? I motivi, come spesso accade in questi casi, sono molteplici e profondi ed hanno a che fare con la capacità, connaturata agli esseri umani, di identificarsi in vicende del genere. Il libro ed il film (che si concentra solo sulla stagione calcistica 1988-89, quando i Gunners riuscirono a vincere nuovamente il titolo dopo 18 anni, con un match vibrante ad Anfield) sono la rappresentazione materiale del senso di riscatto cercato in qualcosa di esterno da noi, qualcosa che amiamo visceralmente. A Paul Ashworth, del resto, accade proprio questo.
“Quand’è che mi sveglio?! Sono anche troppo sveglio. Vorrei non esserlo, vorrei dormire per le prossime dieci stagioni”.
“Stagioni? Sono stufa di sentir parlare di queste stramaledette stagioni, nella vita reale si chiamano anni, Paul. Sai, da gennaio a dicembre!”
“Non per tutti è così!“
Paul è un tranquillo insegnante di lettere, che conduce un’esistenza lineare, avvitata intorno a tre punti fermi: l’Arsenal, le birre da scolarsi con gli amici di sempre, la squadra di calcio composta dai suoi scolari. Una quotidianità, la sua, che lascia ben poco all’immaginazione: fuori dal calcio, non esiste altro. Fino a quando il monocromo viene squarciato da una lama di luce: l’irruzione nella storia di Sarah Hughes (Ruth Gemmel, nel film) scompagina il perimetro di un’esistenza che sembrava destinata a sfilare via senza ulteriori sussulti. Sarah, insegnante anche lei, rappresenta l’esatto opposto di Paul: è severa, rigorosa, precisa. Insomma, gli ingredienti perfetti per far nascere una storia d’amore destinata a detonare. Il calcio, del resto, è diventato più di un’appendice ineludibile nella vita di Ashworth: è un organo caldo che pulsa piacere, qualcosa da vivere in modo maniacale e dal quale non è possibile fuggire, perché è proprio dentro di te. Il calcio, e segnatamente l’Arsenal, condizionano ed erodono tutti i rapporti personali faticosamente coltivati da Paul.
“Di quando in quando, non molto spesso – però succede – ti capita di scoprire un mondo che funziona diversamente. Un mondo che non si ferma a maggio e riparte in agosto. Ci sono cose che non tornano più. E cose che non se ne andranno mai. E cose che non potresti ignorare anche se volessi“.
L’arrivo inatteso di una donna nella sua vita rimescola le convinzioni di Paul. Vale davvero la pena esistere soltanto per il calcio? Non sarebbe preferibile una vita “normale”, senza trasferte, discorsi al bar, partite da seguire in tv? Sapete, una di quelle vite che prevedano un matrimonio, dei figli ed una casa. Una vita che non debba ogni anno iniziare ad agosto per concludersi a maggio. Oscillante tra queste due prospettive, Paul si rende conto che deve cercare di decidersi perché l’amore per il calcio e quello per Sarah sembrano destinati a collidere inevitabilmente. Paul, comunque, prova a convincerla che l’Arsenal non è il suo unico motivo di vita. Ci sono gli alunni, che lo amano per la sua leggerezza, ma anche i genitori che fanno le file ai colloqui solo per parlare con lui.
“Sarah: Non penso che lo stato di salute dell’Arsenal sia una base per mettere su famiglia, non credi anche tu?
Paul: No! Non questa stagione!”
Tutto questo succede nell’anno del riscatto per i Gunners che, trascinati dal cannoniere Adam Smith, veleggiano verso un successo atteso per diciotto lunghissimi anni. Dove trovare un punto di equilibrio? Forse, dentro l’insperata conversione al football da parte di Sarah.
“Sai, quando non hai nient’altro l’Arsenal ti riempie tutti i vuoti e così finisce che ti preoccupi quando perdi con gli Spurs, quando dovresti piuttosto preoccuparti di te stesso”.
Così, Febbre a 90 conquista perché, in fondo, la storia di Paul è quella di ciascuno di noi: nel calcio, più che in altri ambiti della vita, è possibile trovare un rifugio sicuro ed il conforto necessario per limare gli spigoli di un’esistenza che non ci viene giù come vorremmo. I tifosi premuti contro di te diventano una seconda famiglia: sperano tutti la stessa cosa, lavorano tutti per lo stesso obiettivo, ti sorreggono perché sei uno di loro, senza chiedere nulla in cambio. Di quante altre persone potremmo dire lo stesso? I successi della squadra del cuore sono un’autostrada per il riscatto: dal senso di solitudine che avviluppa lo stomaco. Dai drammi sentimentali e familiari. Da quelli lavorativi. L’identificazione è totale ed arriva al punto in cui si fatica a distinguere realtà e finzione: una sconfitta equivale ad una giornata storta; uno scialbo 0-0 ad un pomeriggio piatto; una vittoria sembra suggerirti: “Hey, oggi ti andrà sicuramente alla grande”. Forse, come dice Paul, la vita del tifoso è qualcosa che non puoi capire se non ci stai dentro.
“La vita non è, e non è mai stata, una vittoria in casa per 2-0 contro i primi in classifica con la pancia piena di patatine fritte.”
Brillante commedia british, Febbre a 90 si concede anche lo spazio per riflettere su due drammi come Heysel e Hillsborough e, in definitiva, ci consegna un dribbling ai tracimanti stereotipi di ogni epoca: sì, anche un letterato può amare incondizionatamente il football, metafora imperitura che trascende il rettangolo verde.
“Il calcio ha significato troppo per me e continua a significare troppe cose. Dopo un po’ ti si mescola tutto in testa e non riesci più a capire se la vita è una merda perché l’Arsenal fa schifo o viceversa“