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giovedì 24 Ottobre 2024
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Jay Jay Okocha, da mentore di Ronaldinho a protagonista in terra inglese

La storie de "the african Maradona".

6 ' di lettura

Il mondo del calcio è un universo ricco di storie, alcune di esse sono però da preservare dentro a uno scrigno e da raccontare con cura, spolverando ogni minimo frammento così come fa un orafo con la montatura di un gioiello prezioso, per farlo brillare in tutto il suo splendore. Dentro tale scrigno vi è senza dubbio racchiusa la storia di Jay Jay Okocha: un viaggio di libertà e spensieratezza, di sofferenza e gioia, di leggerezza e vitalità, di scherno. Giocoliere sbarazzino, talvolta genio incompreso, Jay Jay è stato capace di raccontarsi, di trasfondere tutte queste emozioni in un singolo oggetto: il pallone.

Okocha nasce in una terra difficile, precisamente in un piccolo villaggio alle porte di Enugu, sul delta del Niger. Sono appena trascorsi 9 anni dalla Guerra del Biafra, la differenza tra un sorriso e una lacrima è data dal riuscire o meno a veder qualcosa nel piatto alla fine della giornata; una macabra lotteria che Jay Jay affronta sempre col sorriso e con qualsiasi oggetto che abbia forme rotonde tra i piedi.
Il pallone assurge ad elemento di fuga dalle atrocità quotidiane, dalle scorie della guerra civile e dei genocidi. Tra i vicoli del suolo natio Jay Jay inizia a coltivare le sue doti tecniche, accarezzando la sfera ricavata da un mucchio di stracci: è qui che hanno inizio le sinuose danze sul pallone che poco più tardi diverranno celebri agli occhi del mondo intero. Chi lo ricorda in tenera età, afferma che già da piccoletto praticava l’arte dello “step-over”, la sua celebre finta, più simile a un passo di capoeira che ad un semplice dribbling. Freestyler si nasce, è uno stile di vita, un atteggiamento mentale; questo marchio naturale lo accompagnerà per tutta la sua carriera, in ogni sua tappa calcistica: la prima destinazione è Francoforte.

Trasferitosi in Germania con i genitori a soli nove anni, Jay Jay inizia a giocare nella fila del Borussia Neunkirchen; ben presto però il piccolo funambolo attira su di sé l’attenzione di una big quale l’Eintracht Francoforte. Il calcio tedesco è lontano parente di quello odierno, un calcio sporco, duro, improntato sulla corsa e su ferrei dettami tattici. Jay Jay dinanzi a tale scenario rappresenta un ossimoro vivente, uno che nello svariare per il campo alla ricerca della palla trova la sua prima ed unica ragione di calcare il terreno di gioco. Un anarchico del calcio che si trova dinanzi a una realtà fatta di allenatori e dirigenti che cercano di ingabbiarlo all’interno di un rigido concetto pre-ordinato di gioco. Jay Jay è il diavolo, la tattica l’acqua santa. Non ditegli di fare rientri o di portare il pressing in maniera ordinata, non ditegli di attaccare il primo o il secondo palo, o di coprire una determinata traiettoria. “Let him play” sarebbe stata la giusta indicazione nel pre-gara.
La concezione del calcio bailado di Jay Jay si scontra con la visione autoritaria di un sergente di ferro, Jupp Heynckes, uno che ha fatto dell’ordine tattico e della disciplina la chiave dei suoi successi. Con il tecnico tedesco i rapporti non saranno mai idilliaci, ad ogni modo Jay Jay riesce a ritagliarsi i suoi spazi. Del resto, quando le cose si mettono male, anche il più integralista degli allenatori si volge con viso speranzoso a chi può estrarre dal cilindro un colpo folle, insensato, fuori da ogni schema.

L’Eintracht incapperà in una rovinosa retrocessione a fine stagione ma Jay Jay riesce comunque a mettersi in mostra e a sfornare gol e assist che in un campionato come la Bundesliga dell’epoca suonano in maniera atipica, rivoluzionaria. Gesti tecnici del genere su un fangoso campo tedesco non si erano mai visti; quel modo di toccare la palla con la suola, con eterea grazia, oppure con il tacco, in modo irriverente, arrivano da un universo calcistico diverso da quello tutto ordine e disciplina, tipico del calcio germanico. Se per caso aveste dubbi a riguardo, chiedete ad Oliver Kahn se abbia smaltito o meno il mal di testa a seguito del 2 a 1 di Okocha in Francoforte-Karlsruher.
Un passo di danza tribale a spostare la palla sul destro, poi la sterzata sul sinistro con un movimento di bacino secco a schernire il tentativo di salvataggio in tuffo da parte del portiere, quando l’intero stadio grida al tiro, un’altra finta a spostarsi la palla verso il centro, Jay Jay sembra aver perso il tempo per segnare ma è solo un’illusione per Kahn: un ultimo passo di danza, due finte sul posto e la palla scaricata violentemente in rete col sinistro dopo aver fatto ballare una impietosa samba a tutta la retroguardia avversaria.

Arriviamo dritti al 1994, negli States va in scena il Mondiale, una torrida estate lo porta alle luci della ribalta.
Jay Jay è il diamante grezzo della Nigeria delle Supereagles, un team ricco di grandi talenti che esprime un calcio spumeggiante, che fa del possesso palla e del ritmo i suoi architravi. La Nigeria è una macchina sublime, chiude il girone al primo posto davanti a Brasile, schiantando la Bulgaria di Stoichkov e battendo la Grecia. Quando le cose vanno per il verso giusto, Jay Jay è semplicemente delizioso. Agli ottavi di finale il tabellone recita Nigeria-Italia. Una partita che in altri tempi sarebbe stata una passeggiata di salute, si rivela una passeggiata sul ciglio di un burrone per gli Azzurri. Solo due prodezze allo scadere del Divin Codino riusciranno ad interrompere il glorioso cammino delle Supereagles, ribaltando il risultato, ed a regalare agli azzurri il pass per i quarti.

L’avventura statunitense giunge alla conclusione ma la consacrazione di Okocha è appena iniziata. Quanto messo in mostra ai mondiali, dai doppi passi portando la palla avanti con la suola, ai dribbling ubriacanti, sino ad arrivare alla genialità racchiusa nelle traiettorie di passaggio e agli strappi in accelerazione per rompere le linee e i raddoppi avversari, lo rendono un giocatore appetibile nel panorama calcistico internazionale.
Dopo altre due stagioni all’Eintracht accetta la chiamata di un club storico come il Fenerbahce. Segnerà 30 gol in 62 partite, un bottino di tutto rispetto, per un centrocampista offensivo dal ruolo non ben identificato. Nel Bosforo cresce da un punto di vista mentale e carismatico, migliora anche da un punto di vista tecnico, come se ce ne fosse bisogno, arricchendo il novero delle sue abilità con quella di “cecchino” dai calci da fermo.

Il grande rendimento in terra turca gli vale una chiamata direttamente da Parigi. Jay Jay sbarca al parco dei principi per l’equivalente di 15 milioni di euro, una discreta cifra per l’epoca.
Calcisticamente i quattro anni passati a Parigi raccontano di un talento puro, ma privo di continuità. Su un aereo diverso, proprio in quegli anni, sbarca sugli Champs-Élysées un giovane talento brasiliano, un certo Ronaldinho. Jay Jay capisce che quel ragazzo ha qualcosa di speciale, qualcosa in comune con lui, a partire dalla gioia e dalla spregiudicatezza che riversa sul campo di gioco in ogni sua giocata; un dribbling che agli occhi dei più può sembrare irriverente, è una semplice dichiarazione d’amore verso il pallone, custodito tra i piedi con eleganza mai vista.
Jay Jay prende sotto l’ala protettrice il piccolo Dinho, unico in quella rosa a poter dare del “tu” al pallone come Okocha. I due formeranno un tandem indimenticabile, che attira le attenzioni dei palcoscenici più importanti. Un duo calcisticamente delizioso, cristallino, che infonde negli spettatori gioia, stupore, divertimento. La fila alla biglietteria del Parco dei Principi ogni domenica ha sovrascritti i loro nomi. Così come alla storia passano le loro sfide a fine allenamento, una serie di duelli alla ricerca del dribbling più strano ed estetico.

Il legame fraterno tra i due viene interrotto da una telefonata, una di quelle che capitano una volta sola nella vita. Dall’altro capo del telefono c’è Sir Alex Ferguson, cerca Jay Jay. Il resto è un epilogo già scritto. Okocha saluta Parigi, destinazione Old Trafford, alla corte del baronetto scozzese.
Qualcosa però non funziona sin dal principio, il rapporto con i Red Devils non inizia neanche: Jay Jay viene parcheggiato in comproprietà al Bolton, un piccolo club, di cui diverrà sovrano e mago, libero creatore di disegni di gioco astrali.
Da giocatore a leggenda. Al Bolton vivrà quattro anni da assoluto protagonista, diviene l’illusionista di una compagine che punta alla salvezza, l’uomo nel quale riporre le speranze nella permanenza in massima serie. Sono stagioni vissute sull’orlo del baratro, rifuggendo dal fantasma della cadetteria.

  Jay Jay è il giocatore di maggior spessore, il solo in grado di sovvertire il destino già scritto di una squadra dalle modeste qualità, avvezza ad un gioco improntato sulla corsa e la prestanza fisica, sulle palle alte ed i lanci “in the box”. Jay Jay si ritrova nuovamente come elemento atipico, in un contesto per lui quasi paradossale. L’esteta in un branco di bruti, il principe in mezzo ai mezzadri. Saranno i suoi numeri a dare un contributo essenziale alla permanenza del Bolton nella massima serie, il motivo di divertimento di una tifoseria conscia del fatto di dover soffrire. Le sue magie lasciano semplicemente senza parole il pubblico del Reebok Stadium, che si prostra davanti al suo numero 10, proclamandolo capitano, condottiero, mago e genio.

“So good they named him twice”, così cantava il pubblico di Horwich. E così ebbe a salutarlo.

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