what your not supposed to feel
and you take what you want
but you don’t get it for free
you need more time”
Una strofa di Sunday Morning Call degli Oasis serve sempre, ma stavolta a maggior ragione. Forse perché riabilita l’uomo prima che il calciatore. Prova a spiegarti perché a volte ti senti di fare cose che non crederesti mai, come tradire il Leeds per lo United. E ti rammenta che ogni scelta ha un prezzo. Che per ogni strada che prendi, ce n’è sempre una che lasci da parte.
Ci siete? Andiamo.
Rothwell è un paesino di 8mila anime, infilato nel cuore del Northamptonshire, a sud-est di Leeds. Risparmiatevi la fatica di cercare ulteriori informazioni: in pratica, qui, non succede mai nulla. Nell’autunno del 1980, tuttavia, la storia subisce una deviazione inattesa. La cittadina non può ancora saperlo, ma una nascita è destinata a destarla dal torpore cosmico che la avviluppa.
Il bambino si chiama Alan, suo padre fa Smith di cognome ed il carattere che ha già scolpito internamente – tratto genetico immodificabile – è quanto di più distante dalla sonnecchiosa contemplazione dell’esistenza connaturata a questo luogo. Perchè Alan anteporrà sempre la passione all’accidia. Un’impulsività a tratti sfrenata al raziocinio. Il coraggio alla tentazione di starsene soltanto a guardare.
Caratteristiche che, non appena metterà piede su un campo da calcio, faranno di lui una sorta di eroe omerico. Alan Smith è il romanticismo in persona applicato al concetto di calcio: tenta, fallisce, si rialza, bacia la maglia, lotta, segna, si sacrifica per il gruppo. Amarlo è praticamente inevitabile. Di ogni squadra in cui si sposta diventa il beniamino incontrastato.
Come Bellerofonte, l’eroe che – nel poema di Omero – uccide la Chimera, Smith è un uomo infuocato, arso dall’incessante afflato di dare tutto per raggiungere un obiettivo che, ogni volta, sembra spostarsi un po’ più in là. Forse non uccide mostri mitologici, certo, ma è perché ambisce lui stesso a diventare mito. Una strada quantomeno in pendenza, specie per un personaggio irruento e controverso, che ignora le scale di grigio.
Da dove inizia la storia, dite? Siamo dentro uno dei maestosi giardini della Rodillian Academy, un collegio celebre in tutta l’Inghilterra per la capacità di sfornare studenti di talento. Alan ha 11 anni e sfoggia una qual certa attitudine con i libri. Nel frattempo però se la cava bene anche con gli sport: cricket, rugby e calcio. Schivo, ma già formidabile con il pallone tra i piedi, capisce in fretta quale sia la via da percorrere: glielo indicano nettamente le caterve di goal messe via nelle sue prime squadre.
Smith trova la porta con una facilità disarmante, ma non gli basta. Al senso del goal unisce una ferocia disarmante. Viene dentro il campo per aiutare la squadra. Si fa vedere all’ala. Chiude al centro dell’attacco. Fa a sportellate e distribuisce sponde. Sa fare il centravanti, ma anche il falso nueve. Un concentrato di talento e determinazione che non sfugge agli osservatori del Leeds United:lo notano durante un’innocua partitella di fine anno alla Rodillian e lì il corso del suo destino cambia per sempre.
Certo, deve scegliere se terminare gli studi ed optare per un futuro nel mondo accademico, oppure il calcio. La decisione è mirabilmente riassunta nelle sue stesse parole: “Dissi ai miei che sarei diventato un Peacock. Fine della discussione“. Perchè quando la tua città e la tua squadra del cuore chiamano, non c’è nemmeno bisogno di soppesare la cosa.
A soli 18 anni Alan è già una stella che deflagra a Elland Road per mostrare tutto il suo potenziale. Non notarlo è impossibile: con quei capelli biondi ossigenati si aggira per le difese avversarie mietendo vittime a dispetto della propria immaturità anagrafica. Gioca sempre ogni match come se fosse l’ultimo, non si risparmia, incassa la gratitudine della gente di Leeds. Perché è questo quello che tutti vogliono: si può anche perdere, ma bisogna prima provarci.
Smith entra così dentro il cuore dei tifosi: è una carezza racchiusa in un pugno, un tuono destinato a squassare ogni certezza, l’amico leale che tutti vorrebbero al proprio fianco. Accanto a lui ha un carroarmato: Mark Viduka, direttamente dalle terre dei canguri. Insieme formano una coppia con gli ammennicoli. Assortiti in modo quasi irreale, si trovano a memoria. Alan fa la sua prima da titolare alla terza giornata, contro il Liverpool: da lì non esce più dal campo.
Certo, la Premier League non è un campionato scolastico: la vena realizzativa è diluita dal suo senso del sacrificio e, inevitabilmente, dal quoziente di difficoltà. Alla fine Alan metterà dentro 40 centri in 170 presenze, ma al di là dei goal il suo ruolo centrale, a Leeds, non è mai in discussione.
Così, quando dichiarerà “Non andrò mai al Manchester Utd, sarò sempre un giocatore del Leeds“, non esiste davvero un valido motivo per non credergli. Il cuore della città andrà in frantumi quando cambierà clamorosamente idea, adducendo di essere stato un ragazzino al tempo del suo giuramento d’amore eterno. A Leeds, Smith lascerà sempre un sottofondo inespresso: come una storia d’amore che avrebbe potuto essere ancora più totalizzante, se solo non si fosse interrotta. Alan, in fin dei conti, resta un eroe a metà.
Andare allo United, con il senno di poi, sarà una scelta rivedibile: Ferguson dice di volerlo a tutti i costi, ma ad Old Trafford lui è solo uno dei tanti big e, per giocare, finirà addirittura a reinventarsi, giostrando in mezzo al campo. Gli infortuni, successivamente, anestetizzeranno ulteriormente una carriera che avrebbe potuto essere dannatamente più folgorante.
Forse perché l’amore è questione di karma: quando tradisci, la vita diventa quasi sempre un luogo difficile da abitare, anche se ti chiami Alan Smith. E quello che poteva essere, probabilmente, ti mancherà sempre di più di quello che c’è.
“Non ho mai avuto rimpianti, ma non penso che nessuno abbia mai visto il meglio di me“.