Ad impressionare di più, tuttavia, è stato il gioco espresso da quella squadra meravigliosa orchestrata e diretta da Arséne Wenger da Strasburgo. Quell’Arsenal, infatti, era una macchina perfetta. Una fuoriserie bellissima, elegante e potente. Un 4-4-2 ben strutturato che garantiva sicurezza e, allo stesso tempo, lasciava spazio all’estro e alla fantasia dei suoi magnifici interpreti. Si perché, alla fine, il destino di una squadra lo segnano gli uomini che ne fanno parte. E quella squadra, di grandi uomini, ne aveva parecchi.
A partire dal portiere, Jens Lehmann. Un estremo difensore che è giunto il momento di riabilitare liberando il campo dalle suggestioni negative lasciate dalla sua breve parentesi milanista. Ci si accorgerà, allora, che tra i pali il lungo tedesco riccioluto aveva stoffa da vendere. Non è un caso che, per rimpiazzare un mostro sacro come David Seaman, Wenger si sia letteralmente fissato con lui affidandogli, per ben cinque anni, le chiavi della sua splendida creazione.
Ma, a dire il vero, Lehmann era assai ben coperto da una difesa solida ed affidabile. Praticamente un muro invalicabile. I due centrali, Kolo Touré e soprattutto il granitico Sol Campbell, sono stati una garanzia di forza, resistenza e precisione. 26 gol subiti e miglior difesa del campionato. Della serie, ”tranquilli, dietro ci pensiamo noi!”.
Con due difensori del genere, ovviamente, i terzini erano liberi di spingere con continue sovrapposizioni sulle ali. Una peculiarità degli Invincibili, felice intuizione del lungo mago francese. Lauren a destra e un giovanissimo Ashley Cole a sinistra sono stati una vera e propria spina nel fianco delle retrovie avversarie. Cole, soprattutto, quell’anno si è consacrato come uno dei migliori interpreti del ruolo e, su quella fascia, ha formato con Pirès una coppia devastante. Uno si accentrava e l’altro entrava: l’incubo di allenatori, giocatori e tifosi avversari.
Robert Pirès, dicevamo. L’eleganza prima di tutto. Una figura bellissima da ammirare su un campo da calcio, con quelle sue lunghe leve leggere, fragili ma letali. Chi non si è innamorato di lui è un uomo senza passioni. Un esterno devastante che sapeva tagliare il campo come pochi, si accentrava e lasciava partire uno dei suoi leggendari missili da fuori. A fine stagione, il tabellino dirà 14 centri in 36 partite.
L’altra fascia, invece, era il regno di Freddie Ljungberg. Piccolo e rapido, tecnicamente fortissimo e molto duttile. Un giocatore utilissimo che, nella sua lunga permanenza all’Arsenal, Wenger ha utilizzato ovunque dal centrocampo in su. Ma quell’anno, l’anno degli Invincibili, il folletto svedese con la cresta fucsia scorrazzava a destra con la licenza di stringere verso l’interno.
In mezzo, il centrocampo era presidiato da “the invisible wall” Gilberto Silva e, soprattutto, dal capitano Patrick Vieira. Sul francese si è detto molto, chi l’ha visto giocare sa che è stato uno dei centrocampisti più completi dell’era moderna. Eccellente in entrambe le fasi. Fisicamente perfetto, atleticamente mostruoso e tecnicamente molto dotato. Capitano non a caso, Vieira non aveva paura di niente e di nessuno. Neppure di scontrarsi con gente come Roy Keane e Jaap Stam. Con l’irlandese soprattutto, suo grande nemico, ogni sfida era una guerra senza esclusione di colpi.
Un centrocampo, quello degli Invincibili, che era una sintesi perfetta di muscoli e fantasia. Proprio quello che ci vuole per far sì che gli attaccanti riescano a scoccare al meglio le loro frecce. E gli attaccanti di quella squadra, lo sanno bene gli addetti ai lavori, sono stati interpreti magistrali del proprio ruolo.
Da un lato Dennis Bergkamp, dall’altro sua maestà Thierry Henry. Il “non-flying Dutchman”, l’olandese con la paura di volare, non è mai stato un killer d’area. E non era questa la sua funzione. Lui doveva aprire spazi e, credeteci, è stato un mago nel farlo. Seconda punta intelligentissima con una tecnica sublime. Sapeva cogliere l’attimo, leggeva le partite come nessuno e svariava ovunque per spalancare corridoi ai compagni.
E quei corridoi, ovviamente, erano il territorio di elezione di Re Titì. Già, Thierry Henry. “Potrebbe prendere palla in mezzo al campo e segnare un gol che nessun altro al mondo potrebbe segnare”, dichiarò un Wenger innamorato pazzo del suo numero 14. Una tecnica sopraffina che, unita ad una rapidità di mente e di piede fuori dal comune, facevano del francese un predatore letale. Solo quell’anno, 30 gol in 37 partite. Praticamente un sicario.
Ma l’Arsenal degli Invincibili è stato molto di più. Quei Gunners sono stati uno stile di vita, un modo di interpretare il calcio e quindi l’esistenza. Fantasia, bellezza e solidità al potere. Un corpo armonico che si esibiva in uno dei teatri più suggestivi del panorama calcistico mondiale, Highbury. Il salotto del calcio inglese, a pochi anni dalla sua morte sportiva, ha avuto l’onore di ospitare una delle più grandi squadre di tutti i tempi.
Una squadra che ha saputo resistere all’arrivo dei fantamiliardi di Abramovich e ai suoi altisonanti e scriteriati acquisti. Una squadra che è stata capace di respingere la corazzata di Sir Alex Ferguson e di un giovanissimo portoghese dal talento cristallino che rispondeva al nome di Cristiano Ronaldo. Una squadra che, con intelligenza e bel gioco, ha dominato la Premier vincendo il titolo con 11 punti di scarto sulla seconda. Fantasia, bellezza e solidità. Una squadra meravigliosa, di quelle che forse non rivedremo più.