Anthony Yeboah non è mai finito sulla copertina di un fumetto. Mai stato un protagonista della Marvel o della DC. Eppure possedeva le proporzioni iconiche di quei personaggi. Tony, per gli amici, era semplicemente qualcosa di mai visto prima dalle parti di Elland Road. Al punto che, infatti, quando arrivò alla corte di Howard Wilkinson nel gennaio del 1995, per 3,4 milioni di sterline, l’esplosione collettiva fu: Who the hell is he? Chi diavolo è questo?
Lui non ci mise molto ad informare tutti quanti. A Leeds restò soltanto due stagioni, condendo 61 apparizioni con 32 goal mai banali. Del resto, Yeboah era così: una statua greca che si sottraeva alle leggi imposte dalla fisica, per librarsi in giro tra i rettangoli verdi di mezza Inghilterra sussurrando sentenze di morte per le difese avversarie. Dal Ghana alla conquista dello Yorkshire, senza fare prigionieri. Con quel fisico compatto all’inverosimile, con quelle cosce che assomigliavano alle eliche di un aliscafo, sapeva come mettere in crisi da solo interi reparti. Tony lottava e finiva sempre per spuntarla. Proprio come gli eroi dei fumetti.
La sua incontenibile esplosività galvanizzò un club depresso da una classifica deficitaria e dai mancati ingaggi di centravanti spessore assoluto, come Tomas Skuhravy e Ruben Sosa, a lungo rincorsi senza successo. Sotto la guida di Wilkinson, Tony diventò il fascio di luce più abbagliante che avesse mai sferzato il deturpato Elland Road.
Come tutti gli eroi, possedeva un superpotere: il suo era fare goal impensabili. Contro Liverpool e Wimbledon sfoderò colpi mai visti prima. Poi si mise d’impegno a scodellare triplette in giro per i campi del Regno. Al punto che, dopo appena una manciata di settimane dal suo arrivo, nessuno poteva più evitare di sapere esattamente chi fosse. Le difese lo raddoppiavano. Alcune lo triplicavano. A lui però non importava: era venuto per conquistare ogni cosa e le avrebbe crivellate tutte, senza pietà.
LA PRODEZZA DI TONY CONTRO IL LIVERPOOL
LA BOTTA MICIDIALE AL WIMBLEDON
Le sue prestazioni erano semplicemente filmiche. Avvincenti, vertiginose, burrascose. Una caterva di suspence ed effetti speciali, proprio come in un film degli Avengers. L’impatto sismico fu squassante: 13 goal in 16 partite. Abbastanza per destare un club aggrovigliato intorno alle sue antiche vestigia. Per scuoterlo da un insondabile torpore. Ci voleva un animale per compiere l’impresa. Ci voleva Tony.
Guascone e affabile nella vita privata, quando indossava gli scarpini e la tenuta dei whites d’Inghilterra subiva una sorta di trasformazione genetica. Diventata un inarrestabile mezzo di sfondamento. Lasciava tonnellate di avversari alle spalle, la saliva profusa per provare ad arginarlo incrostata sulle maglie. Il pubblico di Leeds lo idolatrava perché con lui era tornato a sentire pulsare un organo caldo dentro al petto.
Come tutte le storie d’amore totalizzanti però, anche questa non era destinata a durare. La capacità di emozionarci ha a che fare con la finitezza. Tony lo sapeva, che avrebbe dovuto splendere al massimo per poi dissolversi, e fece il pieno di tutto: goal, abbracci, sorrisi, brividi caldi. Segnò la sua prima rete al Man Utd, da subentrato, in una sconfitta in FA Cup. Poi il primo sigillo in campionato, all’Everton. Da lì non si fermò più.
Vinse il premio Man of the match e quello per Player of the month per due volte di fila. Le sue innate capacità ne facevano un predatore letale in area: ad un senso della posizione selvaggio abbinava una ferocia inedita per le retroguardie, puntualmente saccheggiate, lasciate ad ardere tra cumuli di certezze andate in frantumi.
Se le prodezze assolute contro Liverpool e Wimbledon lo issarono nell’Olimpo dei centravanti d’Inghilterra, la tripletta rifilata a domicilio al Monaco in Coppa Uefa lo consacrò a livello mondiale. Cinico in modo dilagante. Spietato e decisivo. Yeboah fermò il tempo costringendo tutti quanti a trattenere il respiro, per contemplare la sua grandezza.
LA TRIPLETTA DI YEBOAH AL MONACO
Quando in panchina arrivò George Graham si intuì subito che i due non sarebbero mai stati compagni di birre. Il Leeds del nuovo tecnico era un’orchestra afona e monotematica, che non prevedeva l’imprevedibile. Tony non era al meglio della forma e i dissidi caratteriali con il manager lo relegarono ai margini: il suo antico splendore andava dissolvendosi rapidamente. Così, quando gettò la maglietta addosso a Graham dopo un goal rifilato al Tottenham, fu chiaro a tutti come sarebbe finita. Fece le valigie, salutò la compagnia e prese il primo volo per Amburgo.
Nessuno però potè stupirsi più di tanto. Venne, saccheggiò e se ne andò. I suoi poteri speciali erano solo suoi. Non c’era mai stato spazio per i convenevoli, né in campo né fuori. Lasciò così come era arrivato: diretto, inafferrabile, animalesco. A Leeds aprì la maniglia su una stanza dei sogni ad una generazione di fan sopraffatta da un’apatia strisciante. Entrò in campo e, con il suo fare brutale, accese un fuoco che divampò in fretta.
Lo stesso che continua ad ardere lì dove nessuno può andare a spegnerlo: nel ricordo di un amore incendiario, che ti ustiona dentro per sempre, come fanno gli amori più grandi.