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domenica 24 Novembre 2024
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Emmanuel Petit, il soldato di Wenger

La storia del combattente normanno che conquistò Highbury.

6 ' di letturaIl calcio è uno scrigno ricco di storie diverse. Storie di talenti cristallini mai sbocciati, di chi nasce fenomeno ed ha scritta nel destino l’ascesa nell’olimpo di questo magnifico sport, o più semplicemente storie di vite, di incontri che cambiano per sempre le sorti di una carriera. Piccoli episodi, percorsi che si intrecciano fortuitamente, creando un’alchimia così pura che nessuna scelta consapevole è in grado di eguagliare. Scegliersi grazie al caso, trovare nel cammino un re, un profeta e divenire suo discepolo, soldato. Questa è la storia di Emmanuel Petit, fedele combattente al servizio di Arsene Wenger.

Petit nasce a Dieppe, un comune dell’alta Normandia, guadato da un piccolo fiume, l’Arques, che termina il suo percorso gettandosi nel vasto Canale della Manica. Ed è proprio sulle sponde dell’Arques, nell’omonimo club, che Petit inizia la sua carriera da calciatore. La prestanza fisica, le capacità atletiche e le buone doti tecniche del normanno dalla chioma flava attirano l’attenzione del Monaco che, a 18 anni appena compiuti, decide di ingaggiarlo. Così come un piccolo fiume si getta naturalmente in un canale di importanza storica, ecco che il giovane Petit passa direttamente da un piccolo club di provincia ad una nobile realtà del calcio francese ed europeo. Un salto che può far paura a tanti, ma non ad un ragazzo cresciuto in una terra che da sempre ha forgiato animi combattivi.

L’approdo in terra monegasca si rivela felice sin dai primi mesi. Il fattore principale della fortuna di Petit ha un nome ed un cognome: quello di Arsene Wenger. Il tecnico francese siede già da una stagione sulla panchina del Monaco ed ha messo in mostra le sue innovative idee di calcio, attirando su di se l’ammirazione e la curiosità di un intero movimento calcistico nazionale. Uno dei principali punti di rottura che lo contraddistinguono dai predecessori è la totale assenza di paura nel lanciare nella mischia i giovani calciatori. Tant’è che a Wenger basta osservare una manciata di partite disputate nelle giovanili per rimanere estasiato dalle prestazioni di Petit: è esattamente il tassello mancante nell’undici titolare della prima squadra; la sua corsa ed intensità di gioco coniugate a un buon sinistro possono costituire la chiave di volta nel sistema di gioco del tecnico francese. Così, impavido, Wenger lancia da subito Petit in pianta stabile tra gli undici titolari, impiegandolo dopo poche gare anche nella finale di Coppa di Francia conquistata dal Monaco. A 19 anni Petit alza dunque il primo trofeo, il primo di una lunga serie.

 Wenger lo schiera sia come interno sinistro di centrocampo, ruolo ricoperto dai tempi dell’Arques, che come centrocampista centrale. A partire dagli anni di militanza in maglia monegasca il tecnico francese intravede lo spiccato talento di Petit non solo nell’inserimento senza palla per vie centrali ma anche e soprattutto in fase di interdizione. Decide pertanto di impostare un lavoro tecnico-tattico volto a rendere Petit un calciatore completo, ad individuare una collocazione in campo che potesse mettere in risalto nel migliore dei modi le sue doti tecniche, fisiche e tattiche. Perché avere a disposizione una buona mezzala quando puoi tirare fuori un centrocampista centrale straordinario?

Anno dopo anno Petit vive la propria metamorfosi sotto la supervisione di Wenger, come calciatore e come uomo. Quel giovane ragazzo entrato in punta di piedi è ormai diventato grande; non rappresenta più una piacevole sorpresa ma una solida realtà, un pioniere dal grande carisma a cui la squadra si aggrappa nei momenti di difficoltà. Giunge il 1996, l’anno zero per la carriera di Petit, che vive la separazione dal suo padre calcistico. Wenger, dopo otto anni di bel calcio, seppur senza vittorie, decide di lasciare la panchina del Monaco e calarsi in una nuova sfida in terra inglese, sulla panchina dei Gunners. Petit si trova dinanzi a un bivio: esporsi al rischio di essere etichettato come buon giocatore solo se al servizio del tecnico francese oppure reagire sul campo, dimostrando di essere davvero pioniere, bandiera e non solo soldato. La risposta non si fa attendere troppo a lungo e fuga ogni dubbio: Wenger ha lasciato un uomo, un capitano, un condottiero pronto a trascinare il Monaco sul tetto di Francia nella stagione successiva, alla vittoria di un campionato che mancava da nove anni.

Intanto sull’altra sponda della Manica, nello stesso anno, Wenger si fa conoscere al grande pubblico inglese, proponendo un’idea di calcio fuori dagli schemi del pragmatismo made in England ed incentrato su una gestione del possesso palla e dell’attacco allo spazio del tutto innovativa. L’ottimo terzo posto conquistato in campionato coi Gunners gli vale un’apertura di credito da parte della società, che gli dà carta bianca per operare sul mercato. Per il tecnico francese è necessario rivoluzionare il centrocampo: chiede a gran voce l’acquisto di Vieira e Petit, e puntualmente viene accontentato.

Petit non ha dubbi, in Francia ha raggiunto l’apice della sua carriera, l’idea di tornare tra le “braccia” del suo padre calcistico si prospetta come quanto di più romantico ed allo stesso tempo vincente che possa capitargli a prova di tiro. L’affare va facilmente in porto e, al contrario di quanto spesso accade, le aspettative non saranno tradite.

Al primo anno ad Highbury arriva il “double”. Wenger consegna a lui e a Vieira le chiavi di un centrocampo completo e impenetrabile. Non manca niente: corsa, tecnica, fisicità, inserimenti, gol. I Gunners si rendono protagonisti di una cavalcata eroica, rimontando 12 punti di svantaggio dalla vetta e laureandosi campioni con due giornate di anticipo. Una squadra che dopo le iniziali difficoltà nella ricerca di un assetto ideale si trasformò in una macchina perfetta, non solo efficiente, ma anche spettacolare. Bella da vedere e da raccontare.

Con la maglia dei Gunners Petit vive tre stagioni memorabili. Wenger sublima il lavoro iniziato a Monaco, trasformandolo definitivamente in un incontrista che però ha le qualità e la rapidità di gioco di una mezzala. L’agonismo e i tackle risultano essere le caratteristiche che saltano principalmente all’occhio, ma che in realtà oscurano una brillante sagacia tattica e uno spiccato senso della posizione. Come se non bastasse, il passato da interno di centrocampo non gli toglie il vizio dell’inserimento e di qualche gol realizzato, anche grazie a un mancino educato.

Il triennio in biancorosso si rivela un’età d’oro sotto molteplici aspetti; Petit non trionfa soltanto a livello di club, ma si afferma come uno dei trascinatori in grado di condurre la Nazionale transalpina sul tetto d’Europa e del Mondo. Ai Mondiali di Francia ’98 è il motore sensazionale ed instancabile del centrocampo francese; a coronare un mondiale disputato a livelli superbi c’è anche la realizzazione del definitivo tre a zero con il quale la Francia schiantò il Brasile di Ronaldo e Romario in finale. 

Nell’Estate del 2000 tocca invece all’Italia cadere sotto la scure della Nazionale transalpina e della discutibile regola del golden goal, in una finale al cardiopalma che per notti ci ha reso insonni. Alla soglia dei trent’anni Petit è un calciatore che ha vinto quasi tutto; quasi, poiché in una bacheca pressoché perfetta manca la regina delle coppe: la Champions League. Ed è proprio all’indomani della vittoria dell’Europeo che il centrocampista francese decide di dare un’ulteriore svolta alla propria carriera. Il biondo dagli occhi di ghiaccio matura la convinzione di aver fatto il suo tempo con la maglia dell’Arsenal, Londra gli sta stretta, ritiene di aver dato il massimo per la causa di Wenger e di aver bisogno di nuovi stimoli per continuare ad esprimersi ad alti livelli. La storia si ripete invertendo i ruoli, questa volta è il figlio a lasciare il suo padre calcistico, definitivamente.

Petit si imbarca su un volo, destinazione Barcellona, alla ricerca di nuove glorie e di un percorso che possa portarlo a sollevare la coppa dalle grandi orecchie. L’inizio dell’avventura in terra catalana è soltanto il preludio di un declino rapido e sfortunato. Appena giunto al Camp Nou, viene inspiegabilmente relegato nel ruolo di difensore centrale, una posizione occupata sporadicamente ed in caso di emergenza nella fase iniziale della sua carriera. Sarà lo stesso Petit, anni più tardi, a rendere conto di questa scellerata soluzione tattica, affermando che ” Llorenç Serra Ferrer ( all’epoca allenatore dei blaugrana) non sapeva neanche che ruolo facessi”. Una storia che ha dell’incredibile e  simboleggia quantomeno un trasferimento non voluto. Dopo appena un anno in casacca blaugrana, complici una serie di fastidiosi infortuni muscolari, l’incapacità di ambientarsi e di essere inserito all’interno di un quadro tecnico-tattico, Petit decide di far ritorno in Inghilterra. A farsi avanti sono il Tottenham, lo United e lo stesso Arsenal, ma la scelta di Petit ricade sul Chelsea, club in una fase di transizione ma con un progetto ambizioso. A Londra inizierà facendo da mentore ad un giovane Frank Lampard; ben presto però gli infortuni iniziano a pregiudicare irreversibilmente il suo rendimento. Del resto, per un calciatore come Petit, l’integrità fisica risulta fondamentale per esprimere al massimo il suo potenziale. Il destino si traveste da demone ed abbatte la sua ira funesta sulle ginocchia del povero Petit, che è costretto,alla soglia dei 35 anni, ad annunciare il ritiro dal calcio giocato. Un destino crudele nel suo epilogo, ma pur sempre lo stesso destino che ci ha regalato un calciatore del suo spessore.

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