John Alieu Carew, in poche parole, la chiara rappresentazione della possanza applicata al calcio. Descrivere il “bronzeo” norvegese semplicemente come un attaccante talentuoso sarebbe riduttivo, parlare invece di un fumantino giramondo, senza troppi peli sulla lingua, si avvicina molto più alla realtà delle cose. Inarrestabile come un treno in piena corsa, il gigante dai piedi educati ha lasciato grandi memorie di sé dalle parti di Villa Park.
Il “piccolo” John nasce a Lorenskog, testualmente “la foresta nel fango”, nome che costituisce l’ineluttabile preludio ad una tempra d’acciaio. Il freddo frizzante delle materne terre norvegesi, scaldato dal cuore gambiano da parte di padre, risulta la miscela ideale per un cocktail di eleganza, strapotere fisico ed esuberanza. John non è un bimbo come tutti gli altri, la sua statura è un tratto distintivo sin dai primi anni di vita. Ben presto lo soprannominano “little John”: è un’inedita ventata di ironia norvegese, a canzonare i 193 cm per 88 kg di fibre muscolari. Una statua africana in mezzo ai fiordi. Una rappresentazione cosmopolita di rara bellezza.
Esordisce tra i professionisti nella stagione ’97-‘98 con la maglia del Varelenga, non tardando a dar sfoggio del suo strapotere fisico, abbinato ad una buona tecnica ed una discreta velocità. La media di un gol ogni due partite accende le sirene di uno dei club più importanti della penisola scandinava: si tratta del Rosenborg. A Trondheim trascorre un’unica grande stagione. Seppur giovane e sbarbato, John non soffre il salto di qualità e sprigiona tutto il suo talento. Trascina la compagine bianconera alla vittoria di campionato e coppa di Norvegia, segnando 18 reti in altrettante gare disputate e timbrando per la prima volta il cartellino anche in Champions League. Il gigante è salito sul trampolino, la sua stazza non può che portarlo a tuffarsi molto lontano.
A bussare alla porta del Rosenborg si presenta il Valencia di Pablito Aimar, Albelda e Mendieta, squadra dalle grandi ambizioni in cerca di talenti da abbinare a giocatori di comprovata statura calcistica. L’undici di Cuper ha l’obiettivo di replicare la clamorosa stagione disputata, e possibilmente, vendicare la sconfitta in finale di Champions subita contro il Real Madrid. Stavolta, per il buon John, chiamato a rimpiazzare Claudio Lopez, si tratta di un salto mica da ridere. L’inizio infatti non è dei più semplici, complice il difficile ambientamento in un campionato molto competitivo ed una serie di infortuni che gli impediscono di avere continuità nelle prestazioni.
I primi mugugni non tardano a serpeggiare sugli spalti del Mestalla, ma a “little John” basta un solo colpo per metterli a tacere. Il 17 Aprile 2001 segna una rete pesante come un macigno proprio davanti al suo pubblico: è il goal del definitivo 1-0 nella semifinale di ritorno contro l’Arsenal, che regala ai valenciani il biglietto per la finale di Milano. Del resto, a fare scherzetti alle inglesi si abituerà qualche anno più tardi… Purtroppo la favola del Valencia di Cuper si frantuma nuovamente al fotofinish, perché a trionfare in finale questa volta è il Bayern Monaco. L’anno successivo sulla panchina dei murcielagos arriva Rafa Benitez. Il tecnico ispanico centra il colpo al primo tentativo, portando il club sul tetto di Spagna: Carew, a suo modo, dà il proprio contributo, nonostante una stagione segnata da un difficile rapporto col manager e costellata dagli infortuni (proprio a causa degli acciacchi fisici salta all’ultimo secondo il suo passaggio al Fulham nella finestra Gennaio). Il norvegese lascia Valencia dopo aver collezionato 20 centri in 83 partite, trasferendosi alla Roma negli ultimi giorni di mercato.
L’avventura in giallorosso a dire il vero non parte neanche male, ma il colosso proprio non rientra nelle grazie di Don Fabio Capello, il quale spesso lo relega in panchina (scelta più che comprensibile vista la concorrenza di lusso in avanti). Il segno distintivo della sua avventura a Trigoria resta il maxi-tamponamento nel quale fu coinvolto mentre era diretto all’allenamento, costatogli un infortunio alla schiena e una Ferrari da rottamare. Un episodio sufficiente a non spingersi oltre nella narrazione della sua breve e grigia esperienza romana.
La voglia di riscatto lo spinge sino ai confini turchi. Nel 2004 firma per il Besiktas: il suo acquisto viene annunciato in pompa magna. La società lo presenta come la punta di diamante proveniente dall’Europa che conta, incaricata di trascinare il club sulla vetta della Turchia. Le 13 reti in 24 gare non riescono a soddisfare il pretenzioso palato dei tifosi della capitale: l’attaccante norvegese è il primo a finire sul banco degli imputati nel processo ad una stagione fallimentare. I tifosi gli contestano la scarsa personalità ed il poco soddisfacente rendimento, invitandolo caldamente a fare le valigie.
Il pellegrinaggio del gigante dei fiordi prosegue incessantemente. Altro giro altra corsa: stavolta l’aereo atterra a Lione. Con la maglia dell’OL vive una seconda giovinezza calcistica, ritrovando la fiducia nei propri mezzi e l’irriverenza che da sempre era tratto distintivo del suo carattere e delle sue giocate. Non è un tipo semplice little John, norvegese d’anagrafe ma d’animo caldo, ha bisogno di sentirsi coccolato per dare il meglio. Lione è la piazza perfetta: un club blasonato ma con grande pazienza e tradizione nell’affinare i diamanti grezzi. Carew rientra esattamente in questa categoria: in Rhone-Alpes trova il perfetto accordo il suo destro, e ripaga la fiducia a suon di goal e prestazioni. Nei due anni trascorsi sulla sponda del Rodano diviene il catalizzatore della sinfonia orchestrata da Gerard Houllier, trascinando la compagine transalpina alla vittoria di un campionato e due supercoppe nazionali.
Il punto più alto della sua esperienza in Francia lo raggiunge in una gara di Champions contro il Real, segnando un goal di tacco semplicemente sublime, facendosi beffe del neo campione del mondo, nonché pallone d’oro, Fabio Cannavaro e di un certo Iker Casillas. Un lampo di genio, in una frazione di secondo: un colpo di tacco vellutato, che scorre morbidamente sul manto del Bernabeu alle spalle di San Iker, sussurrando dolci parole che parlano di classe applicata al calcio. È razionalmente l’ultima giocata che ti aspetteresti da uno spilungone alto un metro e novanta. John Carew però non è il classico centravanti alto e legnoso: si tratta di un concentrato di tecnica, irriverenza, follia ed imprevedibilità, che va oltre al fisico donatogli da madre natura. Il Presidente Aulas, invaghito dalle prestazioni offerte dal suo gioiellino e restio a venderlo, è costretto a cedere alle altisonanti lusinghe provenienti dall’altra sponda della Manica.
Sul nuovo biglietto aereo c’è scritto “arrivo a Birmingham”. Durante la sessione di Gennaio va in scena un clamoroso scambio di punte che porta Baros a Lione e Carew a vestire la numero 10 dei Villans. La scelta di una maglia così pesante racchiude il carisma e la fiducia con cui “little John” si presenta in Terra d’Albione. È carico a mille per affrontare una nuova avventura, per lasciare il segno indelebile della sua zampata in un altro pezzetto di mondo.
All’ombra di Villa Park trascorrerà 4 lunghe stagioni, costellate da reti e giocate di pregevole fattura. La sua fisicità gli permette di ambientarsi immediatamente al gioco rude e reggere l’urto dei rocciosi avamposti difensivi. Spesso chi salta con lui si trova a scontrarsi con un muro di gomma, che attutisce e respinge al mittente gli spintoni. Le buone doti tecniche e la stazza imponente lo rendono un temibile cliente da “ospitare” nelle aree di rigore avversarie, delle quali si fa assiduo saccheggiatore. I cross di Young sono cioccolatini per la sua testa, le galoppate di un incontenibile Agbonlahor lo mettono in condizione di trovare più volte la via del goal. Non stiamo parlando soltanto di un temibile centravanti d’area: Carew, quando dimentica di essere indolente, è anche in grado di svolgere un prezioso lavoro per tutta la squadra. La fisicità erculea lo aiuta nei duelli con gli avversari: sradicargli il pallone dai piedi è praticamente impossibile. Per i compagni diventa l’ancora di salvataggio nelle fasi di pressione e sofferenza, il riferimento su cui lanciare lungo e sperare.
I Villans, in quegli anni, contano una squadra competitiva, capace di recare spinosi grattacapi anche alle big del campionato. Una rosa che mischia fisicità, tecnica e cattiveria agonistica. La retroguardia parla scandinavo, leggasi Sorensen a difendere i pali e gli esperti Laursen e Mellberg a guidare il roccioso avamposto difensivo. In mezzo al campo a dare le geometrie probabilmente la più bella rappresentazione di Gareth Barry in Premier, Stylian Petrov ed un usurato ma pur sempre valido Patrik Berger, oltre a un già citato giovanissimo Ashley Young in una primordiale versione d’esterno d’attacco. Carew rappresenta l’ultimo baluardo offensivo della compagine inglese. La Holte End si innamora in un batter d’occhio delle sue esultanze e del suo stile di gioco, perdonandogli sempre e comunque le frequenti bravate, figlie di un carattere ribelle. L’apparenza narra di un tipico centravanti da campionato inglese: ha il fisico di un ariete, pronto a sfondare a suon di incornate le reti avversarie… ma non è soltanto questo. Il gigante ha tecnica, ma soprattutto carisma da vendere. Ed alla gente di Birmingham, fatta di lavoratori duri e puri, questo piace maledettamente.
La sua esperienza Oltremanica termina dopo aver indossato la casacca dei Villans ben 113 volte, condite da 37 centri: questo il bottino raccolto al termine di quattro anni intensi, vissuti in un simbiotico amore con un’intera città. I numeri sono certamente importanti, ma in alcun modo parificabili alla gloria guadagnata tra i vicoli di Birmingham. Addirittura, anni dopo, i tifosi lo inseriranno nella lista dei 50 migliori calciatori ad aver indossato la maglia dell’Aston Villa. I trofei non saranno il marchio di fabbrica di John Carew in terra d’Albione, ma è pur certo che nessuno possa esimersi dal conservare un ricordo romantico della sua esperienza all’ombra di Villa Park.