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La storia di Paul Lake e del crociato di cristallo che infranse i suoi sogni

8 ' di letturaMi sento un estraneo. Sono qui, per la classica foto di squadra nel primo giorno di precampionato. Sono qui… ma in realtà non ci sono. Questa commedia va avanti ormai da anni. E ogni anno mi sento sempre più inutile, fuori posto. Quasi me ne vergogno. In realtà non ho fatto nulla di male… anzi. Le ho provate davvero tutte da quel maledetto giorno di fine estate al Villa Park di Birmingham. È il 5 settembre del 1990. Ho ventun’anni.

Howard Kendall mi ha consegnato la fascia di capitano del Manchester City, l’unica squadra per cui io abbia mai giocato. L’unica per la quale mi interessi giocare. Pochi mesi prima ci sono stati i Mondiali di calcio. C’è mancato davvero un pelo che non ci fossi anch’io tra i 22 che sono saliti sull’aereo per l’Italia. Solo che nell’ultima partita con la Nazionale B, prima delle convocazioni quel vecchio sclerotico che ci faceva da selezionatore ha deciso di farmi giocare ala sinistra contro l’Irlanda. Io ala sinistra! Ho giocato e posso giocare dappertutto… tranne che come ala sinistra e centravanti. Mi sono giocato così le mie chances. Ma mi è passata alla svelta! A ventuno anni ce n’è di tempo!

Invece il mio tempo ha iniziato a finire il 5 settembre del 1990, sul campo dell’Aston Villa. Anticipo pulito e con perfetto tempismo su Tony Cascarino. Solo che i tacchetti si piantano nel terreno… mentre il resto della gamba spinge per andare in avanti. Nel contrasto di forze sento un dolore al ginocchio. Lancinante, terribile. Rimango a terra. “È una fottuta distorsione ai legamenti” penso. Mi era già capitato qualcosa di simile anche due anni prima, contro il Bradford. Anche se il dolore non era neanche paragonabile. Lo strepitoso (!) staff medico del Manchester City decide di farmi sottoporre ai raggi X:«Niente di rotto, Paul. Fra meno di due mesi sarai in campo!» Solo che appena riprovo a correre il dolore torna più forte di prima. Si decidono a farmi un’artroscopia: il legamento crociato anteriore è “andato”.

Il primo tentativo di ricostruzione fallisce miseramente. Appena ritorno ad allenarmi il crociato mi “parte” ancora. Da allora diciotto operazioni, quasi altrettanti tentativi di rientri. Sempre meno convinti, sempre più forzati. Ormai non ci credo più… come faccio a crederci? E ancora questa patetica pantomima! La foto di gruppo con tutti i miei compagni di squadra, alcuni dei quali non sanno neppure chi sono e non mi hanno nemmeno mai visto giocare. Sono qui… ma in realtà non ci sono.

Paul Lake da quel maledetto settembre del 1990 le ha provate davvero tutte per tornare a giocare a calcio. Questa è la storia di un ragazzo che amava il City, che fin da bambino andava sugli spalti del Maine Road a tifare i Blues. Il Manchester City che, tranne per alcuni brevi periodi della sua storia, è sempre stato nell’ombra del più seguito, amato e vincente Manchester United. Il Manchester City che, però, ha un pubblico fedele, appassionato come pochi in Inghilterra, che ha sempre stipato le tribune del Maine Road nonostante per tanti anni i suoi supporters si siano sempre sentiti come sulle montagne russe: un attimo là in alto quasi a toccare le stelle fianco a fianco alle grandi d’Inghilterra e un attimo dopo a sudarsi il ritorno in First Division a Barnsley, a Hull o a Bournemouth.

Proprio in uno di questi periodi nasce questa piccola storia. Quella di un giocatore dal talento precoce quanto cristallino, dalle possibilità illimitate, che, ancora poco più che teenager, aveva già messo la fascia di capitano al braccio nella squadra che amava, l’unica per la quale era interessato a giocare. Ci avevano provato il Liverpool, l’Arsenal, i Rangers di Glasgow… addirittura il Manchester United a portarlo via dal Maine Road. Niente da fare! «È al Manchester City che voglio giocare. Possibilmente per sempre».

Howard Kendall, all’inizio della stagione 1990-1991, non ci pensa due volte. Contratto di 5 anni e fascia da capitano; a Paul, che di anni ne ha ventuno, quando in squadra ci sono giocatori come Peter Reid o Colin Hendry, che hanno giocato decine e decine di partite con le rispettive nazionali d’Inghilterra e di Scozia… e hanno come minimo 10 anni più di lui! Ma in quella maledetta sera di settembre del 1990 la fortuna gli volta completamente le spalle. Sembra un intervento normalissimo, quasi banale. Invece il ginocchio va in mille pezzi. Il crociato si spezza e con lui la carriera di Paul. Saranno cinque interminabili anni durante i quali da capitano e idolo incontrastato dei tifosi del Manchester City arriverà a sentirsi un peso per il Club.

Il Club, peraltro, non farà molto in quegli anni per meritarsi la stima di Paul. Quando i dirigenti perderanno definitivamente la fiducia in un suo completo recupero, lo faranno passare attraverso esperienze umilianti come quando, dopo l’ennesima operazione al suo martoriato ginocchio, questa volta negli Stati Uniti, lo farà tornare a casa in classe Economy, con tanto di stampelle e in un sedile troppo angusto per i suoi 185 centimetri e il suo ginocchio ingessato… con il Medico del Club comodamente seduto in Business Class! Inoltre alla fidanzata che lo accompagnerà negli States saranno i compagni di squadra a pagarle il biglietto aereo con una colletta. A tutto questo si aggiungerà l’onta di atterrare a Manchester e doversi pure cercare una carrozzina a noleggio con la quale arrivare ad un taxi…

Comunque, come già detto, i tentativi di riprendersi e tornare a giocare saranno tanti. Chi scrive ha avuto la possibilità di vedere dal vivo uno dei primi, quelli in cui la speranza era ancora viva. Fu nel primo “Monday night” del calcio inglese. Siamo ad agosto del 1992 ed è la prima di campionato. Si gioca al Maine Road e la partita è Manchester City vs QPR.

Paul è in campo, con il suo adorato numero 8. Ha fatto tutta la preparazione tra alti e bassi, ma finalmente sembra a posto. Peter Reid, manager del City, definirà Paul «l’acquisto più importante dell’estate», talmente grande è la soddisfazione nel riaverlo a disposizione. Paul per un’ora gioca alla grande. Gioca addirittura in attacco stavolta, a fianco di Niall Quinn, e si muove da seconda punta, facendo da riferimento per i centrocampisti e muovendosi su tutto il fronte offensivo. Dopo un’ora di partita, però, Paul si tiene il ginocchio… chiede il cambio. Esce sulle sue gambe, seppur zoppicando leggermente. Il Maine Road trattiene il fiato.

Dopo il match Paul dirà che il ginocchio non è a posto, gli si è gonfiato un po’ e non si sente troppo sicuro. Tre giorni dopo il Manchester City va a Middlesbrough. Paul viene comunque mandato in campo dall’inizio. La sua partita durerà la bellezza di tre minuti… prima che il suo legamento crociato si spezzi per la terza volta. Ancora un tentativo giocando con le riserve nel 1994 e poi tutti i possibili e immaginabili rimedi, più o meno disperati come agopuntura e stregoni vari con le loro acque miracolose e le loro preghiere. Paul cade in una terribile depressione. Ogni santo giorno deve prendere degli antidolorifici per riuscire ad avere una parvenza di vita normale. E gli è stato tolto il calcio troppo presto per pensare a cos’altro fare nella vita.

Nel 1995 si sposa, ha un figlio ma il suo matrimonio va in pezzi dopo pochi mesi. Il Manchester City, però, finalmente si ricorda di lui e gli propone un lavoro all’interno del Club: un corso da fisioterapista e un impiego nello staff medico del Manchester City. È esattamente quello di cui Paul ha bisogno. Per fortuna pian piano i suoi fantasmi lo abbandonano. Arriva una nuova storia d’amore. Sposa Joanne e arrivano due figli. La vita ricomincia a sorridergli. Adesso Paul, dopo aver fatto da “ambasciatore” per il Manchester City nella comunità locale, occupa lo stesso ruolo stavolta per la Premier League, andando in giro per il Regno Unito e per il mondo a promuovere quello che per molti è ora il campionato più bello del mondo. Sono in pochissimi che si ricordano di lui come giocatore, ma sono in tanti, molto più competenti del sottoscritto, che lo definiscono il giocatore potenzialmente più completo espresso dal calcio inglese negli ultimi trent’anni.

Bellissima l’ironia con la quale Paul ripensa a quel periodo «Ogni tanto mi chiedono cosa salverei di quei maledetti anni ’90…  Effettivamente due cose ci sono: la nascita del mio primogenito Zac e il mio primo concerto degli Oasis…»

ANEDDOTI E CURIOSITÀ

Con la prematura fine della carriera per Paul inizia un periodo drammatico. Cade in depressione e ci sono momenti davvero difficili per lui. Una sera di lui si perdono le tracce. La polizia lo trova fermo sul ponte di un’autostrada. «Non avevo intenzione di buttarmi di sotto-racconterà Paul in seguito- ma è anche vero che non sapevo proprio dove andare o cosa fare di me stesso».

In un’occasione si presenta in un Monastero. Va a cercare conforto e aiuto, ma si vergogna tantissimo e teme di essere riconosciuto da qualcuno. Per questo motivo porta con sé in una tasca un assegno in bianco in modo che se lo dovessero riconoscere potrebbe dire di essere lì solo per fare un’offerta.

Il suo rifugio preferito nei difficili anni in cui cercava disperatamente di rientrare dopo il terribile infortunio era il cinema. «Con la mia Coca e i miei popcorn potevo starmene lì da solo, per ore senza essere riconosciuto da nessuno e senza dover parlare con anima viva».

Anche presenziare alle partite del “suo” Manchester City dopo un po’ divenne un problema. «C’era sempre qualche idiota a dirmi quanto fossi fortunato ad essere pagato per non fare un cazzo» ricorda, non senza rancore, Paul. «A quel punto mi inventavo una scusa e me ne andavo alla toilette a cercare di calmarmi per resistere alla tentazione di prendere a pugni qualcuno».

Si è già detto del suo ritorno dall’operazione negli Stati Uniti nella classe “Economy” con un ginocchio appena operato da tenere piegato per diverse ore: all’arrivo all’aeroporto di Manchester Paul non riusciva neppure a distendere la gamba! Un’altra umiliazione arrivò poco dopo, al momento del suo divorzio: senza i premi partita era diventato impossibile pagare l’affitto della casa dove viveva con la moglie, così Paul, a venticinque anni, dovette tornare a vivere con i genitori.

Ovviamente non ci sono solo i ricordi negativi. Nei pochi anni in cui Lake ha giocato ci sono state diverse occasioni il cui ricordo è dolce e positivo. Forse nessun ricordo è dolce come la fantastica vittoria per 5 a 1 nel derby contro gli acerrimi rivali del Manchester United del 23 settembre del 1989. «È stato il giorno più bello della mia carriera. Giocammo la partita perfetta. Noi, una squadra di ragazzini, contro il Manchester United di Ferguson che nelle proprie fila aveva giocatori del valore di Paul Ince, Viv Anderson, Gary Pallister, Mark Hughes e Brian McClair. Ricordo che quel giorno, mentre mi recavo in auto allo stadio, mi dovetti fermare ad un semaforo. Di fianco stavano camminando un papà con un ragazzino di 7-8 anni al massimo, entrambi con la maglia del City e le sciarpe. Il padre mi riconobbe e mi indicò al figlio. Fecero insieme un unico gesto: congiunsero le mani come in una preghiera dicendomi solo “please, please, please”».

Quella partita ha un posto speciale nei ricordi di Paul e di tutto il popolo del Manchester City che in quegli anni era decisamente lontano dagli standard dei rivali cittadini dello United. «Prima di scendere in campo eravamo tutti nervosi e preoccupati. Avremmo tutti firmato per un pareggio. L’inizio fu difficilissimo. Nel primo quarto d’ora ci schiacciarono e il loro goal pareva solo questione di tempo. Quando, però, qualche loro tifoso entrò in campo e la partita fu sospesa per alcuni secondi, il nostro mister Mel Mechin e il coach Tony Book ci riunirono, ci dettero alcune indicazioni e ci rincuorarono. Quando la partita riprese eravamo semplicemente 11 giocatori diversi. Non perdemmo più un singolo tackle o un duello aereo per tutto il resto del match. Al nostro quinto goal non c’era più un solo tifoso dello United dentro lo stadio». Di quel giorno storico resta l’intervista di fine partita per la radio locale. Alla domanda su quale fosse il segreto della vittoria e della sua fantastica prestazione personale, la risposta di Lake fu: «Ho mangiato carne cruda a colazione!»

Uno dei più grandi ammiratori di Paul è stato Howard Kendall, il grande allenatore inglese che portò l’Everton alla conquista del titolo e della Coppa delle Coppe a metà anni ’80 e che allenava il City al momento dell’infortunio di Lake contro l’Aston Villa.

Kendall stesso racconta: «Nell’estate del 1990 ci furono parecchie grandi squadre che mi chiesero Paul Lake. A tutte rispondevo che la cifra per il suo cartellino era 10 milioni di sterline. “Ma come?obiettavano attoniti i miei interlocutori- Nessuno ha mai comprato un difensore per una cifra superiore ai 2 milioni e mezzo di sterline! Come puoi chiedere una cifra del genere?” “Semplice! – rispondevo – perché Paul Lake non lo voglio vendere”»

Paul Lake è, come dicono in Gran Bretagna, un “cult hero”, ovvero uno di quei giocatori che sono stati talmente amati da diventare leggenda, indipendentemente dalle stagioni giocate nel Club, dai trofei o dalla loro esposizione nei media. Paul Lake era un grandissimo giocatore, con un potenziale immenso al quale la sfortuna ha tolto la possibilità di diventare la bandiera del suo amato Manchester City e, senza ombra di dubbio alcuno, della Nazionale Inglese.

Questa storia è una delle 27 raccontate nel mio libro “Mavericks e cult heroes del calcio britannico”, edizioni Urbone:

http://www.urbone.eu/obchod/mavericks-cult-heroes-del-calcio-britannico

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