Il periodo più turbolento e difficile della sua vita sembra essere alle spalle. Fra il 2004 e il 2009 però un’autentica inquietudine fa spostare Almeyda senza un’apparente logica fra i quattro angoli del pianeta. Brescia, West Bromwich, Universidad de Chile, Quilmes, River Plate, Lyn Oslo, Fénix. Sette squadre cambiate in meno di cinque stagioni. Totale delle partite giocate: appena 21. Ogni volta è la stessa storia: da un lato l’incapacità di dire basta con il calcio giocato; dal lato opposto l’impossibilità di essere quello di qualche anno prima, per colpa di un fisico che non risponde più “presente”, e di una mente divenuta troppo fragile che non sa più trovare le giuste motivazioni. Solamente nel finale di carriera, fra il 2009 e il 2011, ritrova un minimo di serenità, che gli consente di tornare protagonista nel suo River Plate.
Che bello sarebbe stato vederlo al top in Premier League. Peccato che quando il 22 dicembre 2004 firma con il West Bromwich Albion, Almeyda mentalmente sia già un ex giocatore. Anche il fisico inizia a chiedere dazio per le fatiche affrontate, sia dentro che fuori dal campo. Dopo essere emerso tra le fila dei Millionarios, si guadagna la nazionale, poi il passaggio a Siviglia, prima di dare il meglio di sé con la maglia della Lazio. A Roma rappresenta muscoli e polmoni di quella forte squadra di inizio secolo. Del resto ha madre calabrese e una bisnonna di etnia Indio, di certo ad Almeyda non mancano grinta e voglia di lottare. In Italia però emergono anche i problemi comportamentali dell’uomo. Il suo temperamento irruento lo porta alcune volte ad esagerare, come quando ruba il cartellino rosso a Trefoloni, dopo essere esploso di rabbia contro Corradi. A Parma inizia la sua fase calante. Litiga con Tanzi e con i tifosi. Celebre l’episodio che lo vede uscire dallo stadio nascosto nel bagaliaio dell’auto, per sfuggire alle ire dei supporters giallo-blu.
All’Inter le cose non vanno meglio. Arrivano due gravi infortuni, e la depressione per la prima volta comincia ad affacciarsi nella sua vita. Lui è uno che deve lottare in mezzo al campo, senza quella “droga” sta male. Inizia una discesa irreversibile, che dopo due anni a Milano lo vede girovagare in lungo e in largo. Litiga anche con i tifosi del Brescia, così rescinde ed accetta l’offerta del West Bromwich. Potrebbe essere la tappa da dove ripartire, per concludere la carriera ad alti livelli. La Premier League sembra la dimensione giusta per lui: corsa, dinamismo, e la giusta dose di cattiveria lo potrebbero elevare a beniamino degli appassionati inglesi. La mente dell’uomo, però, non è sintonizzata sulle giuste frequenze, e di conseguenza il calciatore non si può esprimere. All’epoca, Almeyda non aveva ancora conosciuto “le pillole della bontà”. Non aveva dato peso al parere della psicologa dell’Inter, che gli aveva diagnosticato attacchi di panico. Così il 17 gennaio torna sui suoi passi e rescinde col club inglese, senza essere sceso in campo una sola volta, motivando la scelta con un generico “problemi di famiglia”.
Quel che ci rimane di Almeyda in Premier League è solo una suggestione di 27 giorni, fatta di tanti “se”. Se avesse preso i medicinali ai primi segnali di depressione sarebbe riuscito a mettere da parte l’alcol? Si sarebbe allenato in modo professionale? Magari dopo una stagione ad alti livelli al West Bromwich avrebbe potuto dire la sua in un club più quotato? Non lo sapremo mai. Ciò che invece conosciamo sono le sue “imprese” con la bottiglia. Come quando nella sua Azul bevve cinque litri di vino, fino a sfiorare il coma etilico. Quella volta non funzionò il vecchio trucchetto di mettersi a correre per smaltire l’alcol. Faceva sempre così Almeyda, lui che secondo i medici della Lazio sembrava avere tre polmoni, tali erano le sue capacità aerobiche. La salvezza dell’uomo arriva per mano della figlia, il giorno che lo disegna come un leone in gabbia, triste e stanco. Capisce che così non può più andare avanti, riprende in mano la propria vita e inizia a prendere regolarmente ansiolitici e antidepressivi. Le pillole della bontà, appunto, così le chiamano lui e la piccola Sofìa, quelle pillole che lo fanno essere più buono. Quelle pillole che aiutano Matìas Jesus Almeyda a restare un uomo felice.