La mia è una famiglia onesta. Mia madre Wihelmina si spacca la schiena dalla mattina alla sera in catena di montaggio, alla Ford. Mio padre Sewell invece ha sacrificato una vita lavorando nelle ferrovie. Beh, se l’economia del Paese viaggia forte, forse il merito è anche un po’ nostro, di quella gentaglia tanto disprezzata nei salotti della City. A casa siamo in dodici, io sono il più piccolo. Sono un bambino curioso, vorrei tanto vedere cosa si nasconde nei meandri del mio quartiere, ma i miei genitori me lo vietano, dicono che uscire sia pericoloso. Papà è un uomo di fede: ogni sera, sdraiato nella sua poltrona sgarrupata, prega per me e per i miei fratelli, affinché nessuno di noi venga risucchiato nel turbinio di delinquenza che attanaglia il sobborgo in cui viviamo. Le probabilità che ciò non avvenga sono prossime allo zero. Ma la fede è più forte di ogni calcolo statistico, almeno così la pensano i miei genitori.
“Sol! Vai a scuola e poi fila dritto a casa”. In effetti non hanno torto, mamma e papà. Le strade qui non sono sicure, a sbagliar via e trovarsi nei casini ci vuole un attimo. È da quando vado alle elementari che me lo sento dire. “Meglio povero, che criminale”. Facile per voi, che in tavola avete di che bere e di che mangiare, difficile per chi vive questo inferno quotidiano, apparentemente senza via d’uscita.
Non posso fare praticamente niente, tranne una cosa, quella che amo di più: giocare a calcio. Rincorrere il pallone significa sfuggire per un attimo da questo schifo, dalle catapecchie in cui viviamo, dai furti e dai colpi di pistola che ormai sono diventati la nostra ninna nanna. Io sono un ragazzone, nettamente più grande degli altri, ma i sogni dei bambini hanno tutti le stesse dimensioni, le stesse sfumature. Volare via con la mente, immaginarsi su un prato verde, in mezzo a una folla oceanica che acclama il tuo nome. Ma soprattutto immaginarsi sereni. Salvo poi, quando il pomeriggio volge al termine, e il cielo inizia a spegnersi, ritornare in quel tanfo immane che serpeggia nel mio sobborgo. E allora di nuovo dritto a casa, proprio come vogliono mamma e papà.
A scuola vado bene, sono un ragazzo diligente. Anche lo studio è importante, se voglio andarmene da qui devo farmi notare in qualche modo; la scuola per me non è solo un diritto, ma una speranza. Le regole del gioco sono chiare: se voglio andare avanti con le giovanili, devo portare a casa ottimi voti. E così faccio. Tanti miei compagni, invece, crescendo, iniziano a perdersi per quei vicoli bui. A scuola vanno sempre peggio, e poi va a finire che non li vedi più. Io invece resisto, braccato in questa topaia, ma convinto che non ci sia un’altra soluzione.
Dicevo, calcio e scuola. Per me il connubio perfetto, tanto che riesco a ottenere una borsa di studio per Lilleshall, sede della Scuola d’Eccellenza della Football Association. Che sogno! A scuola vado forte, ma il mio vero talento è quello applicato al calcio. Dopo poco tempo, mi notano gli osservatori del West Ham: era difficile che accadesse il contrario, a 12 anni do 10 cm a tutti i miei coetanei ed in campo me li mangio a colazione. Sono talmente dominante che gli allenatori preferiscono impiegarmi da attaccante. Gli Hammers cercano una bestia d’area di rigore, ed io faccio esattamente al caso loro. Sto facendo le cose per bene, davvero bene.
Segno, gioco e mi diverto. Ma avverto qualcosa non che non va. Qui a Boleyn Ground tira un’aria strana, mi scrutano con fare sospetto, e a questo non sono abituato. Ho sempre giocato nel mio quartiere, con la mia gente, e non capisco il perché di quegli sguardi. Non riesco proprio a decifrarli. Finché un giorno diventa tutto terribilmente chiaro. Durante una normale sessione d’allenamento quello stronzo del coach mi insulta. Non perché abbia sbagliato un movimento, tantomeno per aver fallito una occasione da goal. Semplicemente perché sono un ragazzo di colore.
“Sarai contento, Sol: le Indie Occidentali hanno battuto l’Inghilterra a cricket.”
Non riesco a reagire, rimango pietrificato. L’istinto mi suggerisce insistentemente di gonfiarlo di botte, ma io sono migliore di così. Scaglio il pallone fuori dal campo, con tutta la rabbia che ho in corpo, e corro via negli spogliatoi, tra le risate generali. A far male non tanto l’insulto, quanto l’indifferenza goliardica.
Decido che quello non è il posto per me. Piuttosto che farmi calpestare me ne vado a Southampton, ad aiutare i miei nella loro nuova attività. Mi sento una merda. Ogni sogno lo vedo svanito, risucchiato in un’aria funerea. Forse ho perso l’occasione della vita, forse sarei dovuto rimanere in silenzio, indifferente, continuando ad allenarmi. Ma la mia dignità vale più di tutto ciò.
“Comportati da uomo, e vedrai che tutto ti tornerà indietro”. Cazzo mamma, avevi ragione! Qualche tempo dopo squilla il telefono di casa mia, di solito non rispondo io, ma quella volta è come se avessi un fuoco dentro, corro alla cornetta e l’arraffo come un trofeo. Dall’altro capo del telefono c’è un tale, il suo nome è Len Cheesewright, mai sentito prima. Dice di essere un osservatore per le giovanili del Tottenham e di volermi a tutti costi! La condizione è una sola: spostarmi a North London. Non ci penso su due volte, borsa in spalla e si parte.
Sinora avevo sempre fatto l’attaccante, ma coach Waldon, decide di spostarmi in mezzo alla difesa. Mi sento forte, maturo, conscio di poter essere un punto di riferimento per la squadra. È come se mi animasse un ardore celeste. La mia forza d’animo viene finalmente premiata. Sento che sarà l’inizio della mia carriera. Gli elementi essenziali per essere un vincente nella vita li ho. Sul campo da calcio, vedremo.