A Salford, nella faccia dura e profonda dell’Inghilterra, il 16 novembre del 1974 non nasce nessun eroe. Paul Scholes – perché è di lui che stiamo parlando – sembra destinato fin dalla prima giovinezza a tutto, fuorché allo sport. Come potrebbe, del resto, quel ragazzino gracile, asmatico, lento e debole, praticare una disciplina qualsiasi? Tantomeno il calcio, che diamine.
Ma ci sono persone, come Paul, che la forza per ribaltare una sorte improvvida la custodiscono dentro di loro, in un punto imprecisato, invisibile al resto del mondo. Si tratta di un baluginio lontano, quasi impercettibile, ma state sicuri che – se c’è – prima o poi è destinato a diventare un fascio di luce abbagliante.
Per rendervi l’idea, comunque, è utile riportare il passaggio di un’intervista all’iconico Gary Neville, altra stella indiscussa del Manchester United. “Se mi avessero chiesto quale sarebbe stato il futuro di Scholes, avrei detto: come può essere un giocatore da Manchester United?. Era così piccolo, così leggero. Non aveva grande energia. Non aveva forza. Lo si poteva buttare giù facilmente perché era davvero leggero. Aveva l’asma. Non poteva davvero correre molto. Non è mai stato veloce, e non ti avrebbe mai battuto per il ritmo”. E, ancora: “Guardavi gli altri giocatori e pensavi che Scholes non aveva le qualità fisiche per fare il calciatore. Anche nelle giovanili non ha giocato molte partite. Anzi, neppure era considerato. Nel primo anno, nel 1992, non era sceso in campo manco una volta”.
Ma come ha fatto un ragazzino che parte con un gap del genere a diventare il centrocampista più forte della sua generazione? Com’è che quel bimbo rossiccio che faticava a respirare diventa, nel tempo, A Silent Hero, un uomo che non ha nemmeno bisogno di parlare per sprigionare tutta la sua leadership in campo?
Sempre Neville fornisce una risposta, parziale, alla questione: “Quando ha deciso di smettere di mangiare male e di bere birra, in quell’istante, è diventato un giocatore professionista“. C’è molto di più dietro, ovviamente. C’è una determinazione feroce che, se accompagnata da qualità innate – quelle sì – diventa un binomio invincibile. L’eroe, del resto, deve ricevere una chiamata per entrare in azione. Un po’ come accade nelle tragedie greche, Scholes si rende conto che per ribaltare il proprio destino c’è soltanto una cosa da fare: strapparlo e riscriverlo da capo.
Nel 1991 entra a far parte delle giovanili del Man Utd, ma bisogna aspettare il 23 luglio del 1993 per firmare il primo contratto da professionista. Al debutto – è il 21 settembre 1994, gara di Coppa di Lega contro il Port Vale – segna una doppietta. Complice l’infortunio di Roy Keane, ottiene una definitiva maglia da titolare nella stagione 1997/98. Da quella zona del campo non lo toglierà più nessuno. Scholesy vive lì. Quella è casa sua. Viene a prendere palla basso, la mette in cassaforte disorientando gli avversari con oceani di finte, alza la testa e distribuisce aperture, imbucate, bellezza. Qui si sente bene: qui è finalmente la versione migliore di se stesso.
Di lui, Pelè ha detto: “Se ci avessi giocato insieme, avrei segnato molti più gol“. Il compagno di squadra Carrick, tra i molti, ha aggiunto: “Ho giocato con tanta gente in carriera, ma lui era diverso. Lui era spaziale“. Un collega illustre come Xavi, invece, lo ha definito “il miglior centrocampista degli ultimi 20 anni, sicuramente il più completo“.
Scholes, pupillo di Sir Alex Ferguson, è stato l’eroe silenzioso che ha consentito, con il suo apporto determinante, di vincere 11 campionati. Con la maglia dei Red Devils ha messo in bacheca 25 trofei, disputato 718 partite e segnato 188 goal (le punizioni ed i tiri da fuori erano le specialità della casa).
Ma, ben oltre i numeri, Scholes ha saputo dimostrare a tutto il mondo una verità da ricordare sempre: che il talento, senza una folle determinazione, non farà mai di te un eroe.