L’European Super League è già un Super Flop. Sono state sufficienti 48 ore affinché l’ammutinamento si sgretolasse, inducendo la maggior parte dei club fondatori a fare un repentino passo indietro. La reazione più potente è quella che è arrivata dall’Inghilterra, dove tutti e sei i club coinvolti (Arsenal, Man City, Man Utd, Liverpool, Tottenham e Spurs) hanno deciso di mollare la presa. Il programma di una competizione fondata da proprietà super ricche, pronta ad abbeverarsi dagli opulenti – ma non prodigali, era un megaprestito – capezzoli della JP Morgan, si è rivelato una diga di cartapesta incapace di fronteggiare una pressione inaudita, giunta da ogni lato.
Ed è proprio questo l’elemento che dovrebbe indurre ad una riflessione profonda. “Abbiamo commesso un errore, non volevamo causare tutta questa sofferenza”, confessano dal board dell’Arsenal. “Siamo fuori”, commenta il Chelsea dopo che i suoi fan si sono riversati in strada per protestare furiosamente. I primi a sventolare il proprio gigantesco disappunto erano stati invece i tifosi del Liverpool. Se un lato positivo deve essere affibbiato a questo Super tentativo di azzerare il merito ed anestetizzare il romanticismo legato alla speranza degli sfavoriti di provarci, è quello di aver unificato giocatori, staff e sostenitori di club storicamente in contrapposizione tra loro.
Perché? Il motivo è semplice. Come recita un cartello agitato dai tifosi del Chelsea, una fredda e piovosa nottata nell’inospitale Stoke vale molto di più di un’eterna andata e ritorno con Real Madrid, Juventus o chi per loro. Perché la passione non è mai stata in vendita. I club sono ormai grandi aziende e i tifosi i loro consumatori? Vero soltanto in parte. La tracotanza che ha intriso le scelte dei fondatori ha offuscato le letture giuste, come quando un centrale canna il tempo per staccare di testa e l’attaccante lo frega. Perché il calcio, senza i fan, è una roba che non esiste.
L’ira dei supporters, la ferma presa di posizione da parte dei governi nazionali ed una tempesta mediatica perfetta hanno reso insostenibile l’idea di una competizione il cui unico requisito d’accesso resta commisurato a parametri come fatturato, bacino d’utenza e followers. L’Ajax? Il Porto? Il Lione? No, i meriti sportivi equivalgono ad un’aranciata stappata per questa gente. Quello che i businessman non sono riusciti a comprendere – e come avrebbero potuto, del resto – è che l’ancestrale forza empatica legata al calcio, sebbene logora e sfibrata, non accetta ancora di essere spedita in soffitta. Che la vittoria a tutti i costi non vale una promessa, una speranza di riscatto, un’accarezzata idea di rivalsa. Che decine di milioni di tifosi nel mondo – e questo è ancora più vero in Inghilterra – vivono un rapporto osmotico, identitario, con il proprio club. Che proprio per questo la propria squadra si sostiene e si ama a prescindere. Anzi: si ama anche se vince.
Certo, i titoli in borsa nel frattempo sono impennati. La credibilità però è ridotta in macerie. Cosa sarebbe successo senza tutta questa pressione esterna? Probabilmente la Super League sarebbe andata avanti senza battiti di ciglia. Ecco perché le scuse sono già tardive e insufficienti. Come potranno adesso questi club sedere allo stesso tavolo di coloro che hanno così sfacciatamente tradito? Ci riusciranno, certo, perché i sentimenti non sono una variabile contemplata quando si tratta di bilanci sanguinosi e indebitamenti biblici. Però sono le emozioni che muovono il mondo e quindi i soldi, non viceversa. Specie se si parla di calcio.
Perciò tenetevi la vostra luccicante Lega privata, rivestite i seggiolini d’oro e iniettatevi miliardi a stelle e strisce in vena. Noi continueremo a preferire un sedere gelato, una birra che va a conoscere la manica della giacca mentre esulti ed un viso imbevuto di pioggia. In una fredda serata a Stoke, naturalmente.