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giovedì 21 Novembre 2024
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Attenzione, il giocattolo si sta per rompere. Non per colpa della Superlega.

8 ' di letturaSembra sia passata una stagione intera, invece solo la settimana scorsa una delle notizie più sconvolgenti degli ultimi decenni ha aperto una voragine nel mondo del calcio. La sera del 19 aprile 2021, un freddo e impersonale comunicato annunciava la nascita della Superlega, una nuova competizione a inviti tra alcune delle squadre più importanti d’Europa. Per quanto alcune meccaniche dell’operazione sono apparse poco limpide (Tetto agli ingaggi sì o no? Quali sarebbero state le altre tre squadre fisse? Come sarebbero state scelte le squadre facenti parte “per merito”? Solo le prime a venire in mente), chiara fin da subito è stata la grande opposizione che le dodici squadre fondatrici hanno trovato in tutto il continente.

Il ruolo del Pelide Achille è sicuramente toccato a Aleksander Čeferin, la cui ira funesta ha inondato giornali per ore giornali e televisioni. In una scena da vera e propria tragedia greca, in cui l’avvocato sloveno sembra aver sofferto più di ogni altra cosa l’intimo e personale tradimento di Andrea Agnelli, il presidente della UEFA e vicepresidente della FIFA ha tuonato minacce verso le società che hanno partecipato alla fuga. Hanno poi fatto quadrato attorno all’istituzione i club francesi e tedeschi, che hanno rifiutato l’ingresso nella Superlega e anzi votato positivamente la riforma della Champions League.

Lo sdegno per la nascita di questa orrida idra a 12 teste ha creato una coesione mai vista prima in Europa. Tifosi, giornalisti, politici, volti televisivi, allenatori delle squadre coinvolte, presidenti e dirigenti delle squadre non coinvolte, giocatori. Un fronte incredibilmente compatto, tra popolo imberbe e altolocati del pallone, che per la prima volta dal 1850 si sono trovati sinceramente d’accordo su un motto: la Superlega sarebbe diventata l’emblema della morte del calcio come sport.

La furia dei tifosi, le minacce di UEFA e FIFA, la celerità con cui Boris Johnson (sorprendente viste le tempistiche con cui il primo ministro si è mosso in una certa emergenza sanitaria poco addietro) ha assicurato completo appoggio legislativo alle istituzioni del calcio, ma secondo le malelingue (capeggiate dal Mundo Deportivo) anche un aiutino economico promesso da Čeferin ai primi club che avrebbero rotto lo schieramento dei traditori, hanno portato infine le “big six” d’Inghilterra a fare un passo indietro. Un momento quasi più ridicolo della creazione stessa della Superlega. In meno di 48 ore, una a una tutte le squadre si sono sfilate, chi definitivamente chi invece alludendo velatamente alla volontà di riprovarci, prima o poi.

Agnelli, Ceferin e Perez quando ancora tutto andava bene

Chissà come finirà…

Le conseguenze nel lungo periodo delle folli “Due Giornate di Superlega” sono ovviamente ancora tutte da scoprire. A una settimana esatta dal tumulto, i club insurrezionalisti non se la passano molto bene. In Italia la Lega di A ha appena votato la modifica del codice che mette nero su bianco il divieto di partecipazione delle squadre a qualsiasi competizione non organizzata dalla UEFA o FIFA, pena l’esclusione dal campionato. Se Inter e Milan, i cui tifosi hanno sì espresso il loro forte disappunto ma senza manifestazioni plateali, sembrano ancora sul chi va là, sicuramente la Juventus è la squadra che più sta soffrendo il naufragio del progetto. Andrea Agnelli, vicepresidente della Superlega e apparentemente uno dei suoi principali artefici, sembrerebbe attaccato non solo da Čeferin ma anche da una fronda interna alla società. A fargli compagnia sul patibolo che il presidente UEFA sta velocemente allestendo sui media ci sono Florentino Pérez e Joan Laporta, il triumvirato a capo dei ribelli che vedrà probabilmente le sanzioni più ingenti.

Čeferin ha già annunciato che ci andrà leggero con le inglesi (ma guarda un po’), sollievo in realtà effimero visto che la situazione oltre la Manica è sicuramente più esplosiva che sulla terraferma. Londra, Liverpool e Manchester hanno visto negli ultimi giorni migliaia di tifosi inferociti scendere in piazza contro le proprietà delle rispettive squadre. Le televisioni hanno fatto andare a ruota libera i loro “pundits” ex professionisti, capeggiati da un infuriatissimo Gary Neville, che hanno descritto l’operazione (quando si limitavano) come un “joke” o una “disgrace”. Chi più sembra rimetterci saranno le proprietà americane delle big six: un po’ perché apparentemente promotrici del progetto in Inghilterra, un po’ perché diciamocelo, gli yankee da quelle parti stanno sempre un po’ sulle palle. Se Ed Woodward ha già pagato pegno per i Glazer allo United, è notizia delle ultime ore che il miliardario svedese Daniel Ek (proprietario di Spotify) sarebbe d’accordo nientemeno con Thierry Henry, Dennis Bergkamp e Patrick Vieira per tentare la scalata all’Arsenal, trovando probabilmente il beneplacito delle istituzioni nazionali e continentali. Stan Kroenke, attuale patron dei Gunners, sembrerebbe contento di ascoltare offerte sulla base di 2 miliardi di sterline.

Gary Neville infuriato per la Superlega

Il background da cui nasce la Superlega: ci vogliono sempre più soldi?

Passati sette giorni, sfogata quanto possibile l’indignazione, è arrivato però il momento di riflettere. Perché il fallimento dell’esperimento-lampo Superlega non può, e non deve, nascondere una situazione che buona sicuramente non è.

Dichiariamolo apertamente: così come è stata progettata e comunicata al pubblico, quella competizione aveva un valore sportivo prossimo allo zero. Le contraddizioni erano evidenti ed esagerate, farne una lista sarebbe questione lunga e tediosa. L’ira dei tifosi è sicuramente giustificata, anzi quanto avremmo voluto vedere anche in Italia lo stesso fermento che ha attraversato le strade inglesi. Ahinoi, un altro indice di come la nostra situazione sia particolare a dir poco.

Eppure dei ragionamenti bisogna metterli in atto. Florentino Pérez, in quella tremenda intervista rilasciata a un programma TV spagnolo, ha sostanzialmente dichiarato che solo la nascita della Superlega avrebbe potuto permettergli di provare ad acquistare Mbappé dal PSG. In realtà, solo l’iniezione di contante che sarebbe arrivata da quel campionato per pochi intimi avrebbe donato al Real Madrid, così come alle altre partecipanti, un futuro economicamente più sicuro. Perché l’orizzonte temporale per il football, così come funziona ora, potrebbe non arrivare molto lontano.

Il calcio non è mai sembrato un investimento dal sicuro profitto, almeno dalla nostra esperienza di tifosi italiani abituati a patron che spesso fanno il passo più lungo della gamba. Però i ricavi delle squadre europee sono aumentati assai nell’ultimo decennio, soprattutto grazie ai rinnovi sempre più proficui dei diritti televisivi, tanto che il mercato europeo del pallone è arrivato a valere 28,9 miliardi di euro. Di questa enorme cifra, il 59% è rappresentato dalle 5 leghe principali: Inghilterra, Spagna, Germania, Italia e Francia.

Soprattutto per i campionati più ricchi, il supporto finanziario dei diritti è fondamentale: in Inghilterra e Italia vale il 60% di tutte le entrate “operative” (cioè senza considerare il peso dei trasferimenti) dei club, in Spagna il 54%, in Germania il 44% e in Francia il 47%. In tutte queste nazioni, un altro 30% circa di ricavi arriva dalle sponsorizzazioni e dagli accordi commerciali. Questo significa, e dispiace dover infrangere ancora una volta i sogni più romantici, che i ricavi del cosiddetto “matchday” tra biglietti e altri servizi diventa una fetta molto piccola dei ricavi delle società. In Italia è solamente l’11%, in Inghilterra il 13% (nonostante gli stadi di Premier siano pieni al 97% della loro capacità stagionale).

Nuovo stadio Tottenham

Così vale anche nei campionati europei di minore importanza. I diritti televisivi sono ormai il pilastro su cui si regge il sistema calcio. Le entrate dello stadio, l’immagine che a tutti noi manca del tifo sulle gradinate, non sono più prioritarie per qualsiasi società al mondo. C’è una sola nazione in cui non vale questo precetto, la meravigliosa Scozia, dove ancora più di metà dei ricavi deriva dai giorni della partita.

Ma c’è di più. Lo diceva anche Arséne Wenger pochi giorni fa, ospite in una trasmissione inglese: gli stipendi pagati dalle società sono ormai altissimi, troppo per poter pensare di andare avanti così. In Inghilterra e Spagna valgono il 61% di tutte le entrate, in Italia addirittura il 70%. Se la Premier League ottiene 3,4 miliardi solo dai diritti televisivi (su 5,8 totali), ne spende 3,6 in stipendi. Il trend poi è in aumento da anni, e se alcune stagioni è giustificato da un lauto rinnovo dei contratti sui diritti, succede anche quando di ulteriori iniezioni di liquidità non c’è traccia.

Con la maggior parte dei ricavi concentrati nelle società più importanti (in Premier le big six da sole ottengono il 70% di tutte le entrate delle società del campionato), i club che vedono rosso nei loro bilanci sono sempre di più. Notizia non dell’ultima ora, soprattutto per noi italiani che vediamo ogni stagione uno stillicidio di società anche storiche dalla B in giù. In Inghilterra, dove sono molto meno abituati, ancora si fa fatica a credere al fallimento del Bury nel 2019. Ma attenzione: già da qualche anno il rapporto tra stipendi e ricavi totali in Championship supera il 100%. Cioè le entrate complessive non coprono i costi dei contratti. Fino a quando i proprietari e le banche saranno disposti a sostenere una perdita così sostanziale?

L’UEFA non fa meglio

La UEFA non è che se la passi molto meglio. Se è vero che ci sono sempre grandi aumenti nella redistribuzione dei proventi delle competizioni ogni volta che vengono rinnovati i diritti tv, oltre ai sempre più numerosi contributi di solidarietà che versa nelle casse delle federazioni nazionali, la sua quota di mercato annuale sembra assottigliarsi sempre di più. Questo senza voler scendere nella diatriba delle scelte politiche, facendone presente una su tutte: come si può inneggiare ai sentimenti e ai valori dello sport in contrapposizione alla Superlega, quando si organizza la finale di Champions League a Istanbul?

Guardandola dal punto di vista economico la situazione non è rosea. Il capitolo procuratori meriterebbe un articolo a parte, solo per cercare di capire come mai non sia stato ancora toccato. Approvata la riforma della competizione massima europea, che allargherà i partecipanti a 36 e modificherà la struttura delle prime fasi, e in rampa di lancio la nuova manifestazione per i club di terza fascia (Conference League), i dati mostrano che il potere economico rimane in mano a un nugolo di squadre. Esattamente le teste dell’idra, Bayern e Borussia in Germania, PSG in Francia.

Uno degli assiomi di punta alla base dell’allargamento della Champions e della nascita della Conference League, più squadre partecipanti vuol dire più redistribuzione di denaro, è sconfessato dalle statistiche e anche da alcune ricerche indipendenti fatte in varie nazioni. Uno studio comparativo portoghese sul Vitória Guimarães e sul Paços de Ferreira (la prima spesso presente nelle prime fasi di Champions o Europa League, la seconda con due entrate negli ultimi venti anni) dimostra che per i club piccoli i tanto agognati soldi derivanti dall’accesso alle competizioni europee danno benefici minimi nel lungo periodo, quasi nulli nei primi anni, e solo mantenendo una gestione più che prudente della società. Una leggera spinta a investire, per esempio per mantenere uno standard qualitativo della rosa tale da continuare a giocare le coppe, porta spesso a montagne di problemi economici.

La sede dell'Uefa a Nyon

Il sistema calcio, così come è strutturato ora, non si regge in piedi sulle sue gambe. Si dice spesso, e a cercare qualche dato se ne ha una spaventevole consapevolezza. La colpa di chi è? Bella domanda. Andrebbe assegnata probabilmente a un po’ tutti gli attori in campo. Come al solito, il tifoso medio si troverà a subire le scelte scellerate di chi avrebbe il potere di cambiare qualcosa.

La Superlega andava fermata? Quasi sicuramente sì. Ma come ogni volta che un’insurrezione minaccia lo status quo, ora c’è finalmente del terreno fertile per poter veramente pensare a qualcosa di diverso. Se vogliamo anche solo sperare di poter conservare una briciola di quel romanticismo ormai andato nel nostro sport preferito, questo è il momento per cambiare. Non lasciamolo fuggir via, in un alito di vento svizzero.

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